Approfondimenti

Nel cuore nero dell’Europa/2

(continua dalla prima parte)

L’ala nera dei Popolari Europei

Con l’ingresso del Paese nell’Unione Euopea nel 2004 si andava completando un lungo processo di occidentalizzazione dell’Ungheria cominciato con la formazione del gruppo di Visegràd (1991-1993), con l’ingresso nell’OCSE (1996) e con l’adesione alla NATO del marzo 1999; il tutto sotto la guida dei governi socialisti del MSZP. Tuttavia la concomitanza tra l’ingresso nell’Unione (1 Maggio) e le elezioni europee (giugno 2004), aveva determinato anche un altro grande effetto: un frettoloso apparentamento fra i partiti del Paese e le famiglie politiche Ue, col risultato che Fidesz, la formazione conservatrice di Viktor Orbàn, potè entrare immeditamente nel Partito Popolare Europeo (PPE). Nelle Europee 2004 va inoltre registrato uno striminzito 2,4% (72.000 voti) per i neonazisti di Jobbik.

Arriva la Crisi: tra bugie e proteste

Alla fine del 2006 il premier socialista Ferenec Guyrcsàny fu al centro di uno scandalo: una radio privata trasmise la registrazione di una sua conversazione privata nella quale ammetteva di aver ingannato gli ungheresi non rivelando loro la grave crisi economica. Per una decina di giorni violenti scontri tra manifestanti e polizia si accesero davanti alla sede del Parlmento e agli uffici della tv pubblica, protagonisti delle azioni più dure furono proprio i militanti di Jobbik, mentre alcuni rappresentanti di Fidesz si presentarono come la voce della piazza, chiedendo le dimissioni del governo socialista e giustificando gli atti violenti; la protesta smobilitò rapidamente e il governo resistette, ma fu solo il primo segnale, la crisi economica stava cominciando a farsi sentire.

Il Pil unghrese diminuì, infatti, del 2% nel 2008 e del 6% nel 2009, mentre il Fondo Monetario chiese a gran voce un drastico piano di risanamento per evitare il default; Viktor Orbàn tornò sulle barricate.

In una campagna elettorale per le Europee 2009 diventata rovente sui temi economici, Fidesz cavalcò il malcontento popolare contro il FMI e la BCE raggiungendo il 56,3%, i socialisti del MSZP (nonostante l’esclusione di Guyrcsàny) crollarono al 17,3%, mentre i neonazisti di Jobbik, trascinati anch’essi dall’ondata nazionalistica anti-UE, schizzarono al 14,8% (428.000 voti, terza forza del Paese) ottenendo tre europarlamentari. Sotto l’urto dell’impoverimento generale, ma soprattutto della paura del default, l’Ungheria virava brutalmente a destra.

La Guardia Magiara

La grande fortuna dei neonazisti ungheresi stava però nella loro feroce campagna securitaria anti-rom: braccio operativo della strategia di Jobbik era stata la “Guardia Magiara per la difesa della tradizione e della cultura”, un gruppo paramilitare (nato nel 2007) che nel biennio 2008/2009 scatenò una vera e propria caccia agli zingari nelle zone rurali del Paese.

Nello statuto del gruppo si leggeva che lo scopo della Guardia era “preparare la gioventù spiritualmente e fisicamente a situazioni in cui potrebbe essere necessario la mobilitazione delle persone”: in realtà significò sei morti, centinaia di aggressioni, decine di attacchi incendiari notturni; la Croce Rossa si trovò costretta, primo caso in Europa in mancanza di un conflitto militare, a evacuare alcuni villaggi rom (come a Gyöngyöspata o Tatàrszentgyörgy), oggetto di ripetuti raid armati.

Nonostante, nell’estate 2009, la Corte d’Appello di Budapest sciolse la Guardia Magiara, le violenze non si fermarono, mentre i processi per i raid xenofobi furono pochissimi, data anche la penetrazione di Jobbik nelle forze di polizia, tramite il suo sindacato Tettrekész (rappresentativo del 10% degli agenti); la stessa formazione venne rifondata con il nome di Guardia Nazionale Unghrerese, pochi mesi dopo la messa fuorilegge.

Secondo i neonazisti, come ai tempi di Csurka, il nemico erano la democrazia, “figlia dei miliardi del Capitale ebraico internazionale”, e “chi ferisce l’Ungheria”, intendendo così gli zingari capaci solo di vivere di furti e del sussidio statale.

Il trionfo di Viktor

Mentre il Paese precipitava pericolosamente nella crisi economica, giunsero le elezioni nazionali dell’aprile 2010, ma, nonostante i socialisti schierassero, in cerca di un disperato rilancio d’immagine, un giovane candidato (A. Mesterhàzy), per Viktor Orbàn e la sua Fidesz arrivò l’ora del trionfo col 52,7% (2.700.000 voti). Jobbik, sotto la guida del trentennne Gabor Vona, invece si ritrovò uno straordinario 16,7% (856.000 preferenze), prendendo soltanto 140.000 voti in meno dei socialisti e ribadendo il terzo posto tra le forze politiche nazionali.

Il margine di vittoria di Fidesz lasciava ad Orbàn mano libera per poter finalmente plasmare la sua Ungheria, contando su di una maggioranza parlamentare assoluta e sulla fortissima investitura popolare, un’arma propagandistica che non mancherà di usare più volte. In primis la strategia del Premier si focalizzò su due temi: il rilancio economico e soprattutto la creazione di una nuova Carta costituzionale, entrambi obiettivi raggiunti con grande spregiudicatezza e aggirando molte normative Ue.

La nuova criticatissima Costituzione (varata nel 2012 e votata a quasi totale maggioranza nel 2013) trasformava la “Repubblica Ungherese” in “Ungheria”, prevedendo inoltre: il dimezzamento del numero dei parlamentari, la riduzione a una sola camera, una forte limitazione dei poteri di controllo della Corte Costituzionale in materia legislativa, un bavaglio all’informazione e alla libertà di opinione (principio della “difesa della dignità della nazione”) e l’impossibilità per le coppie non sposate di avere lo status giuridico di “famiglia”.

Invece le misure economiche eccezionali, la cosiddetta “Orbanomics”, prevedevano una corposa limitazione delle garanzie dei lavoratori, la riorganizzazione della Banca Centrale Ungherese, tagli alle spese dello Stato, misure proibizioniste, nazionalizzazioni e aiuti all’industria dal sapore autarchico; Orbàn obbligò inoltre per legge i neolaureati a non poter lasciare, per cercare lavoro, il Paese per minimo cinque anni, pena il pagamento di una forte cifra di indenizzo per lo Stato.

Nonostate le tantissime critiche internazionali piovute su questi provvedimenti, il premier, ribattezzato dai media europei “il Berlusconi Ungherese”, continuò indisturbato nella sua muscolare azione di riforma, ribadendo di “non accettare ingerenze esterne” e sfidando le istituzioni economiche transnazionali sul tema del pagamento del debito del suo Paese.

Contemporaneamente le continue mobilitazioni di Jobbik nelle zone rurali, alimentavano un clima di isteria razzista, parlando di “Rom come emergenza nazionale”, esaltando l’ostilità iraniana contro Israele, proponendo in parlamento che venisse fatto un censimento degli ebrei presenti in Ungheria; tutti temi spesso propagandati in raduni musicali giovanili, trasformando il Paese nella nuova centrale del nazirock dell’est Europa.

L’Ungheria di oggi

Nelle elezioni europee e in quelle nazionali del 2014 l’elettorato ungherese continuò a premiare la linea politica di Orbàn che, anche grazie alle sue polemiche con la Ue, prese un 51% (EE) ed un 45% nazionalmente, per il rinnovo della nuova camera unica, introdotta dalla nuova carta costituzionale del 2013. Il dato più preoccupante fu però l’ulteriore affermazione di Jobbik che, dopo essere stato il secondo partito d’Ungheria alle Europee, incassò nelle elezioni nazionali il 20,5% con circa 984.000 voti: il più importante exploit elettorale per un partito neonazista dell’Ue.

Il grande successo dell’estrema destra ebbe anche l’effetto di irrigidire la politica di Orbàn sul’immigrazione che si oppose strenuamente, in sede europea, a ogni politica di accoglienza e annunciò, nel 2015, controlli eccezionali alle frontiere e, soprattutto, la costruzione di recinzioni sul confine con la Serbia e la Croazia. Nonostante una rinnovata crescita economica (con un +3% del PIL) e il fallimento del progetto di legge elettorale (fortemente maggioritaria) che avrebbe ulteriormente aumentato il potere di Fidesz, l’Ungheria di Orbàn e Jobbik rapprensenta, nel cuore dell’Unione Europea, un preoccupante esempio di autoritarismo nazionalista e razzista.

 

L’articolo è tratto dalla serie Viaggio nell’estrema destra europea, un progetto dell’Anpi – Associazione nazionale partigiani d’Italia, curato dal ricercatore storico e collaboratore dell’Università Statale di Milano Elia Rosati.

  • Autore articolo
    Elia Rosati
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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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