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Un ricordo del cantante berbero Idir

Idir

È morto ieri all’ospedale Bichat di Parigi Idir, uno dei grandi protagonisti della canzone algerina. Idir, 70 anni, combatteva da tempo contro una malattia polmonare.

Negli anni settanta la sua canzone A Vava Inouva aveva fatto il giro del mondo. Ma Idir è stato molto più di un artista di successo: è stato il più noto a livello internazionale e tra i più amati in patria di una generazione di cantanti-intellettuali che nell’Algeria del regime a partito unico e dell’identità unica, quella arabo-musulmana, ha difeso l’identità e la cultura berbera e allo stesso tempo ha coltivato il sogno di un’Algeria laica e plurale.

A differenza della maggior parte dei Paesi africani, l’Algeria arriva ad emanciparsi dal colonialismo attraverso una guerra e pagando un altissimo prezzo, di sangue e sacrifici. Nella violenza del conflitto si impone nell’FLN, che guida la lotta di liberazione, un approccio schematico al problema della fisionomia etnico-culturale algerina: dopo la vittoria, preso il potere, l’FLN, con un’operazione di drastica negazione della pluralità e degli intrecci di appartenenze della popolazione, squadra l’identità algerina su un modello rigidamente arabo-islamico, tagliando fuori in particolare le componenti berbera ed ebraica.

All’interno di un orizzonte ideologico di unità araba, quella che viene artificialmente e pesantemente calata sul paese è una riduzione della complessità, una censura riconducibile ad una matrice mediorientale ed estranea invece all’indole profonda dell’Algeria e alla specificità del Maghreb.

Idir nasce nel 1949 in un villaggio della Kabilia, la regione dell’Algeria settentrionale nella quale vive la più numerosa minoranza berbera del paese (diversi milioni di individui), profondamente attaccata all’identità culturale e linguistica che la differenzia dalla popolazione arabofona. Mentre da bambino fa il pastore sulle montagne della Kabilia, Idir per ingannare il tempo suona tamburelli e flauto: quando poi verso il ’60 a causa del dramma della guerra che oppone l’Algeria al colonialismo francese si trova con la famiglia sfollato ad Algeri, circondato da gente che parla una lingua che non capisce, matura l’impulso a cercare il contatto con altri kabil come lui, e a interessarsi delle tradizioni e della musica che ha dovuto lasciarsi alle spalle.

Nella casualità di una vicenda individuale, questo processo di formazione rispecchia però un fenomeno più generale: dura terra di montagna, la Kabilia ha costretto molti suoi abitanti ad emigrare e spesso ad espatriare, soprattutto in Francia, e i processi di sradicamento hanno prodotto come reazione un tenace legame con le proprie origini, innanzitutto attraverso la musica. Reazione che si è sommata ad un’altra, quella appunto nei confronti di un’identità imposta nella quale i kabil non si riconoscono.

Sulla base di una tradizione popolare di poesia cantata, che nella cultura kabil ha sviluppato una grande attenzione per i testi, il malessere per la rimozione dell’identità kabil si è riversato in un ricco filone di canzone impegnata, che si è posta in alternativa alla musica popolare algerina arabofona e al modello estetico della grande canzone sentimentale moderna egiziana affermatasi con straordinarie figure come Oum Kalsoum e Farid El Attrash e egemone in tutto il mondo arabo.

Nella fase calda della frizione della componente berbera con il regime, alcuni popolari cantanti come Ait Menguellet e Fehrat hanno anche conosciuto la prigione: una tradizione di impegno che si è mantenuta anche negli atroci anni in cui l’Algeria è stata dilaniata dal terrorismo dell’integralismo armato e dalla guerra sporca condotta dagli apparati dello stato.

Impostosi negli anni settanta con A Vava Inouva, Idir è assurto a icona dell’identità berbera, e della canzone e della cultura berbera è rimasto uno degli esponenti più rinomati. L’importanza della canzone berbera impegnata è stata riconosciuta anche dal pop-rai, al quale peraltro la canzone kabil e lo stesso Idir avevano guardato inizialmente con una certa insofferenza: ma due nemici comuni – la repressione e la censura del regime, quindi la violenza omicida dell’integralismo islamico – così come una comune idea di libertà, hanno poi portato ad un riconoscimento reciproco. Nell’88, in un momento di aspre proteste in Algeria, Khaled, per esprimere la frustrazione di una gioventù senza prospettive, riprende una canzone di Idir, Fuir, mais ou?

E in quella sorta di desiderio – che ha manifestato in alcuni momenti della sua produzione – di ricomporre in musica il mosaico dell’identità algerina, Khaled, diventato una star del rai, ha chiamato a collaborare Idir, così come ha fatto con il pianista ebreo Maurice El Medioni.

Idir non si è posto il problema di una presenza berbera in musica in termini di fedeltà alla tradizione, di “autenticità”, concetto dal suo punto di vista da un lato di per sé problematico perché è difficile escludere che nelle sue vicende millenarie un popolo abbia conosciuto mescolanze ed incroci (certa musica berbera – la stessa musica di Idir – ricorda per esempio talvolta modalità musicali di area celtica…), e dall’altro rischioso perché rinvia ad idee di purezza e di assoluto di cui si sono già sperimentati gli esiti nefasti: per Idir quello che era in gioco nel dare voce alla cultura berbera non era la salvaguardia di un’”autenticità”, ma un fatto di democrazia.

Da qui un atteggiamento pragmatico, laico, nell’attualizzazione e nella rielaborazione del patrimonio musicale berbero: la modernità musicale e la strumentazione occidentale sono stati per lui una scatola di arnesi da cui attingere alla bisogna, sulla base di un’esigenza espressiva, senza stabilire barriere.
La canzone kabil che ha avuto in Idir uno dei suoi simboli ha scavato nel profondo della coscienza algerina ben al di là dei confini della comunità berbera: la nuova Algeria delle manifestazioni di massa del 2019 – che il cantante aveva visto con grande simpatia – deve moltissimo ad una figura come Idir.

Foto dalla pagina Facebook di Idir

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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    Un debutto interessante quello dei Satantango, nuovo progetto shoegaze proveniente dalla provincia cremonese. Il duo, composto da Valentina e Gianmarco, è oggi passato a Volume per raccontare e suonare in acustico alcuni brani del nuovo album “Satantango”. Il titolo è lo stesso di un film ungherese del 1994 della durata di oltre sette ore: “l’ambientazione e le atmosfere sono molto simili a quelle che ci sono nei nostri posti”, spiega il duo. Tra shoegaze, dream pop e slowcore, l’album dipinge un immaginario bianco e nero tra malinconie di provincia e nebbia, cinema chiusi e un senso di innocenza perduta, ed è ricco di riferimenti a pellicole vintage come “Gioventù Amore e Rabbia”. L'intervista di Elisa Graci e Dario Grande e il MiniLive dei Satantango.

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