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Un ponte per mille profughi verso Italia

“Quando andiamo in Italia?”. A domandarlo è Hussein, un bimbo siriano di sei anni con gli occhi vispi e allegri. Da due anni e mezzo vive all’interno di un garage alla periferia di Tripoli con la mamma, il papà e la sorellina, affetta dal retinoblastoma, una rara forma di tumore che colpisce la retina. Sono loro una delle famiglie che arriverà in Italia nelle prossime settimane, grazie al primo corridoio umanitario in Europa, sponsorizzato interamente dalla società civile, attraverso l’otto per mille della Chiesa Valdese.

Il protocollo, firmato il 15 dicembre scorso, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Comunità di Sant’Egidio insieme al Ministro degli Interni e degli Esteri, prevede il rilascio di mille visti umanitari, grazie ai quali altrettante persone vulnerabili, potranno raggiungere l’Italia in modo sicuro e legale. “Un numero molto alto se si considera che il governo inglese ha promesso il resettlement di duemila rifugiati siriani nel 2015”, afferma Nando Sigona, professore italiano e vicedirettore dell’Institute for Research into Superdiversity dell’università di Birmingham.

Nei primi sei mesi giungeranno in Italia, suddivisi in due liste, circa duecento cinquanta rifugiati, la maggior parte siriani basati in Libano, paese che ospita ufficialmente più di un milione di profughi secondo le cifre dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Le stime tuttavia sono al ribasso poiché l’Unhcr, su pressione del governo libanese, ha smesso di registrare i nuovi arrivati dallo scorso maggio. Altre duecento cinquanta persone arriveranno nei successivi sei mesi, dal Libano, dal Marocco e, in una seconda fase del progetto, anche dall’Etiopia, senza alcuna discriminazione su base confessionale o etnica.

“La priorità è stata data a casi particolarmente vulnerabili”, spiega Cesare Zucconi, segretario generale della Comunità di Sant’Egidio. Ci sono bambini traumatizzati dalla guerra in Siria, persone con patologie difficilmente curabili in Libano e famiglie che da quasi tre anni e mezzo vivono all’interno di una tenda in una località a nord del paese dei cedri, sotto minaccia di alcuni cittadini libanesi.

“Non abbiamo più niente: solo questa tenda, due valigie e le nostre foto”, racconta Abu Rabia, un uomo siriano originario di Homs che vive con la moglie e i suoi tre figli nel campo profughi di Tel Abbas,n nel Nord del Libano, vicino al confine con la Siria. “Se potessimo, torneremmo in Siria ma ciò che più desideriamo adesso è andare via dal Libano perché la situazione è sempre più difficile per noi”.

In passato la famiglia di Abu Rabia e altre persone dello stesso campo sono state minacciate dai residenti della zona. Per questo, da un anno e mezzo, Operazione Colomba, il corpo di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha scelto di vivere stabilmente nel campo di Tel Abbas accanto ai profughi. Alberto Capannini, referente del progetto in Libano per Operazione Colomba racconta a Radio Popolare: “Inizialmente la scelta è stata dettata dalle minacce di morte ricevute da queste persone, poi ci siamo resi conto che per loro era difficile accedere ai servizi sanitari e che una presenza come la nostra avrebbe potuto aiutare il rapporto con le organizzazioni non governative, quindi abbiamo scelto di restare”.

Il Libano, inoltre, non avendo ratificato la convenzione di Ginevra del 1951, non riconosce i siriani come rifugiati e ha adottato nei loro confronti una serie di provvedimenti che ostacolano il lavoro regolare e che li obbligano a pagare, ogni sei mesi, un’onerosa tassa di registrazione. “Mio marito lavora come elettricista nel nostro garage. Gli portano le televisioni e lui le ripara qui, per paura che possa essere arrestato – racconta Ayla, la mamma della bambina affetta da retinoblastoma – senza questo lavoro non ci potremmo permettere di pagare i duecento dollari di affitto per questo garage”.

Il corridoio umanitario è un progetto sperimentale e innovativo che potrebbe essere replicato da altre chiese, associazioni o organizzazioni della società civile. “Se riuscissimo a creare un effetto moltiplicatore, magari nei prossimi anni, potremmo portare quindicimila, invece di mille persone, riuscendo a salvare vite umane innocenti in fuga da carestie, guerre o disastri ambientali” , spiega Francesco Piobicchi di Mediterranean Hope della Chiesa Valdese, il quale aggiunge: “Bisogna smettere di vivere la migrazione come un’emergenza. I conflitti per il controllo delle risorse, i cambiamenti climatici e la crescente disuguaglianza causeranno sempre più la migrazione di milioni di persone. Se non cambiamo nulla nel modo di fare politica a livello globale, questa non si fermerà”.

Il progetto prevede inoltre l’accompagnamento e il supporto dei rifugiati in tutte le sue fasi: dall’assistenza sanitaria e legale al viaggio, dall’accoglienza alle attività d’integrazione, di avviamento al lavoro e d’inserimento scolastico. Il governo italiano non ha nessun costo, perché sarà responsabile solo del rilascio dei visti umanitari, che avverrà in seguito al controllo da parte del Ministero degli Interni, dei nomi presenti sulla lista. Una procedura più sicura, poiché l’accertamento delle persone avviene prima ancora della partenza. I beneficiari del progetto dovranno firmare una dichiarazione in cui si impegnano a restare sul territorio italiano almeno un anno, al termine del quale potranno richiedere il riconoscimento dello status, muoversi altrove o tornare in Siria qualora la guerra fosse finita.

Probabilmente Hussein non sa dov’è l’Italia, ma sa che lì, la sua sorellina sarà curata e insieme ricominceranno ad andare a scuola. “Uno,due, tre, quattro, cinque…cento”, “ti amo”. Il piccolo bambino siriano saluta così gli operatori di Mediterranean Hope come a voler dire “vedete, io l’italiano lo imparo in fretta”.

  • Autore articolo
    Sara Manisera
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