Un anno di prigione per “propaganda contro lo Stato, accompagnata dal divieto di viaggiare per due anni e da quello di far parte di qualunque organizzazione politica o sociale”. Questa è la sentenza riportata dall’avvocato di Jafar Panahi, all’Agence France-Presse, in seguito all’udienza che si è tenuta a Tehran, mentre il regista iraniano si trovava all’estero.
Dopo lunghi periodi passati in esilio in Francia, Panahi aveva deciso di tornare in Iran nonostante le minacce ricevute per il suo ultimo film Un semplice incidente, premiato con la Palma d’Oro a Cannes e ora da vedere al cinema. Infatti, oltre ad essere stato il primo film che il regista iraniano ha realizzato fuori da una prigionia durata più di vent’anni, è anche una storia che attinge dalla sua esperienza personale e da quella di altri che come lui sono stati incarcerati con l’accusa di propaganda contro il governo. Panahi ha sempre realizzato un cinema clandestino e coraggioso, per cui ancora oggi viene condannato alla reclusione.
Durante l’ultimo Festival di Cannes, Panahi ha voluto ricordare le migliaia di artisti e oppositori politici ancora detenuti nelle carceri iraniane. Recluso anche lui ad Evin per diversi periodi, a partire dal 2010 con l’accusa di propaganda contro il governo iraniano e da cui era uscito recentemente su cauzione, ora dovrà scontare una nuove pena. “Non ho mai smesso di girare film clandestinamente in Iran, poi passati in molti festival e distribuiti all’estero, mentre io non potevo uscire dal Paese – ha raccontato il regista in un incontro a Cannes”.
La storia dell’ex prigioniero che incontra per caso il suo aguzzino meditando vendetta, vuole essere la testimonianza di 40 anni di arresti nei confronti di chi esprime le proprie idee in Iran. Uscendo dalla reclusione, Panahi racconta di aver trovato la società iraniana molto cambiata, soprattutto grazie ai movimenti nati dopo l’uccisione di Mahsa Amini: “Non ho chiesto a nessuna attrice del mio film di indossare o meno il velo, le ho lasciate libere di scegliere”.


