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Tra Macbettu e Čechov. Intervista al regista Alessandro Serra

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    Cultura |
Alessandro Serra Macbettu

Il Macbettu di Alessandro Serra è giunto in questi giorni alla sua duecentesima replica alla Triennale di Milano, dove resterà fino al 14 dicembre, mentre il regista sarà impegnato dal 18 al 21 dicembre nel portare in scena, sempre alla Triennale, il suo nuovo spettacolo, Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov.

Abbiamo parlato con Alessandro Serra proprio di quello spettacolo-fenomeno che è il Macbettu, a partire dalla sua genesi, e ci siamo fatti dare qualche anticipazione anche sul nuovo lavoro che andrà in scena tra pochi giorni.

L’intervista di Ira Rubini a Cult.

Ormai il Macbettu è quasi patrimonio dell’umanità e non poteva che essere così. Penso che possa essere apprezzato anche dai peggiori critici britannici di scuola shakespeariana.

Lo scopriremo presto, perchè a maggio saremo a Londra con quattro repliche. Siamo pronti ad affrontare anche gli inglesi.

Ci vuole raccontare come è nata l’idea di Macbettu?

Io ho un amore particolare per Shakespeare come altri miei colleghi, non è difficile amarlo. Questo però un testo che mi ha sempre affascinato proprio da un punto di vista filosofico, perchè si è soliti pensare che sia Amleto il personaggio che pensa, in realtà quei rari momenti in cui Macbeth riflette raggiunge delle vette filosofiche altissime. Mi hanno sempre affascinato sia il testo che il personaggio e confesso che molti anni fa, con una mia compagnia, avevamo pensato di metterlo in scena, ma alla fine non sono riusciti a trovare la chiave per la scrittura di scena. Nel 2006, tornando a casa in Barbagia e con la scusa di fotografare i carnevali tradizionali. In quei quattro o cinque giorni vidi diversi di questi carnevali Mamoiada, incluso quello più carico e potente di Mamoiada, ma anche delle ricostruzioni teatrali, lo dico con molto rispetto. Fotografando, passeggiando, anche un po’ bevendo e riascoltando il suono della lingua di mio padre le imagini continuavano ad andare lì. E confesso che tornando a casa e rielaborando quelle immagini scrissi un progetto molto strutturato – con danze, musiche, suoni e colori – e per molti anni ho cercato di convincere qualcuno ad investire in questa avventura. Ci jo messo dieci anni a trovare qualcuno che potesse credere che si potesse recitare in sardo un’opera impronunciabile, come dicono gli inglesi.

Parliamo del sardo o dell’inglese?

Parliamo dell’inglese! Sapete che non si può nominare la parola Macbeth. Anche i teatranti italiani restano comunque terrorizzati, lo chiamano il dramma di stampo scozzese. E c’è un perchè. All’epoca c’era Giacomo I, che era succeduto ad Elisabetta, ad era un appassionato di stregoneria al punto che scrisse addirittura un trattato di stregoneria. Shakespeare in quest’opera gli rende omaggio in vari modi, riempiendolo di malefici e stregonerie vere e proprie.

In questa Barbagia c’è tutta la Scozia che di deve essere e vi raccomandiamo di andarlo a vedere. Una parola sul Giardino dei Ciliegi?

Non saprei cosa dire se non che è un autore che io amo profondamente ed è per me un maestro di scrittura di scena. È uno dei pochissimi autori che riesce a compiere lo straordinario attraverso l’ordinario. È un testo che io amo tantissimo ed è lontanissimo da Macbeth e da Shakespeare. Se dovessi usare un esempio musicale direi che Macbeth è una sinfonia, la Quinta di Beethoven, e Čechov può essere un quartetto d’archi. La differenza è questa, non si può paragonare il jazz alla musica sinfonica.

Foto | Triennale Milano Teatro

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    Redazione
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