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Tifare o non tifare Croazia

Nazionale della Croazia

Nessun conoscitore di calcio – e nei Balcani ce ne sono molti, quasi tanti quanti in Italia, Argentina o Brasile – avrebbe potuto supporre che in occasione della partita Croazia-Russia, valida per i quarti di finale dei Mondiali di calcio, il commissario tecnico della nazionale croata Zlatko Dalić “lo” avrebbe fatto di nuovo. Ovvero che avrebbe deciso di ripetere la stessa strategia adottata per la prima partita della Croazia al campionato, giocata a Kaliningrad, quando aveva mandato in campo una formazione composta da soli due centrocampisti, Modrić e Rakitić, un portiere, due terzini, due stopper e addirittura quattro attaccanti, ognuno col proprio stile di gioco, ma accomunati dallo stesso obiettivo: ripetere il successo ottenuto dalla nazionale croata ai mondiali del 1998 ed entrare in semifinale, soddisfacendo in tal modo le proprie aspettative e quelle dell’opinione pubblica croata che, come sempre, erano molto alte.

Una mossa del genere probabilmente non se l’aspettava nemmeno il quotidiano più influente della Croazia, che alla partita con la Russia aveva dedicato un supplemento di venti pagine e una copertina che titolava “Svi u napad” [Tutti all’attacco]. Pur essendo ben informati, i giornalisti del quotidiano in questione non hanno nemmeno osato ipotizzare che nella partita con la Russia potessero scendere in campo quattro attaccanti e che Kramarić potesse prendere il posto di Brozović.

Ciò che tutti però sapevano è l’esistenza di uno stretto rapporto tra patriottismo, successi sportivi e media, un rapporto da cui nessuna nazione è immune. Questo populismo estremo, questo inebriarsi della propria grandezza, non è legato esclusivamente al calcio. Lo abbiamo visto accompagnare la vittoria di Goran Ivanišević a Wimbledon ed i successi degli sciatori Ivica e Janica Kostelić. Ma non raccontiamoci bugie: i successi raggiunti in passato non sono nulla se paragonati ai mondiali di calcio in corso.

Se osserviamo la situazione da una prospettiva più ampia, senza limitarsi a quello che avviene in campo, ci rendiamo conto che in questo nazionalismo da operetta c’è ben poco di positivo: le immagini della presidente croata mentre si reca nello spogliatoio della squadra nazionale dopo la vittoria contro la Danimarca e abbraccia i giocatori a torso nudo, oppure quelle del suo arrivo sulla tribuna d’onore con indosso la maglia a scacchi rossi e bianchi, illustrano meglio di qualsiasi altra cosa la tendenza al kitsch che lo caratterizza. Sono tra l’altro immagini diventate oggetto di scherno da parte di molti media internazionali. Il che non stupisce, così come non dovrebbe stupire che una persona minimamente ragionevole si rifiuti di unirsi ai tifosi dell’Erzegovina occidentale che, tifando Croazia, insultano la Bosnia Erzegovina (“Fottiti Bosnia, fottiti, la Croazia è la mia patria”), paese in cui vivono, auspicando che un giorno la Croazia annetta parte dell’Erzegovina.

Per intenderci, non vi è nulla di illegittimo in tutto questo, ma le cose sono semplicemente impostate in modo sbagliato. Questo è il mondo in cui viviamo. C’è sempre una parte a cui non piace la verità, e la verità – tornando al calcio – è la seguente. L’attuale squadra nazionale croata, se paragonata a quella del 1998, è più equilibrata, ma a parte il secondo tempo della partita contro l’Argentina, non verrà ricordata per le sue grandi performance né per il bel gioco. Tuttavia, ciò che conta alla fine è il risultato. E lo spirito di squadra, ovvero la volontà di impegnarsi tutti insieme – caratteristiche che nelle squadre nazionali di altri paesi europei vanno date per scontate, mentre restano il vero punto debole delle squadre dei paesi balcanici. Di tutti le squadre dei paesi sorti dall’ex Jugoslavia, solo quella croata si è dimostrata capace di superare quell’indolenza che compare quando ci si trova davanti a un grande ostacolo.

In tal senso, alla Croazia non si può rimproverare nulla, ma ci sono altri aspetti da prendere in considerazione. I vertici alla guida della Croazia sicuramente non cercheranno di sfruttare il successo ottenuto ai mondiali di calcio in Russia per migliorare i rapporti con i vicini né per superare la malattia infantile del nazionalismo. Né tanto meno i calciatori della nazionale croata smetteranno di celebrare le loro vittorie con le canzoni di Marko Perković Thompson, al quale è stato vietato di tenere concerti in molti paesi dell’Unione europea, a causa della sua inclinazione a ricorrere all’iconografia fascista ed esaltare l’idea di Herceg-Bosna, entità parastatale i cui creatori sono stati condannati dal Tribunale internazionale dell’Aja per un totale di 111 anni di reclusione.

Date queste premesse, è comprensibile l’atteggiamento di chi, soprattutto a Sarajevo ma anche in altre parti della Bosnia Erzegovina, si rifiuta di tifare per la Croazia “finché i suoi tifosi non smetteranno di celebrare le vittorie screditando e offendendo la Bosnia Erzegovina”.

La verità è che l’attuale nazionale croata, o meglio qualsiasi nazionale croata, non esisterebbe senza la Bosnia Erzegovina. Non solo perché il commissario tecnico Zlatko Dalić, così come i giocatori Ante Rebić, Mateo Kovačić, Ivan Rakitić, Vedran Ćorluka e Dejan Lovren sono nati o cresciuti in Bosnia, e almeno altri tre giocatori hanno origini bosniache, ma anche perché la maggior parte dei bosgnacchi tifa per la Croazia.

Nell’atteggiamento arrogante, ignorante e pseudo-coloniale della leadership croata (politica e calicistica) nei confronti della Bosnia Erzegovina vi è qualcosa di deleterio e provinciale. Qualcosa di miserabile che impedisce ai cittadini bosniaci di tifare Croazia senza riserve e per motivi prettamente sportivi.

È altrettanto vero che la società croata – ignorando le piccole differenze e insistendo su “grandi” concetti – nemmeno come membro della famiglia europea progredisce. Ma questa è un’altra storia. O forse no? Ad ogni modo, per un cittadino bosniaco è molto difficile tifare Croazia.

Nazionale della Croazia
Foto | Wikimedia https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/e/e1/National_Team_Friendly_Game%2C_Cyprus_VS_Croatia.jpg/1280px-National_Team_Friendly_Game%2C_Cyprus_VS_Croatia.jpg

(Articolo di Ahmed Burić pubblicato su OBC Transeuropa)

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    Già vincitore di un Leone d’Oro per “Sacro Gra” nel 2013 e di un Orso d’Oro tre anni dopo alla Berlinale, Rosi riceve anche il Premio Speciale della Giuria di Venezia 82. In “Sotto le nuvole” l’esplorazione si sposta nella Napoli della circumvesuviana, in un bianco e nero inedito per la città dei mille colori, tra la terra che ogni tanto trema, sotterranei archeologici in mano alla camorra, la centrale dei Vigili del Fuoco, le fumarole dei Campi Flegrei e il Porto di Torre Annunziata con con una nave siriana che scarica grano ucraino. “È il mio primo film non politico” sostiene Rosi, eppure nel fuoricampo di “Sotto le nuvole” il non detto arriva anche in senso politico. L'intervista di Barbara Sorrentini

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