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La prima guerra del presidente Trump

Si chiamano Armi di Distrazione di Massa. L’espressione venne coniata all’epoca della Seconda Guerra del Golfo, quando l’amministrazione Bush per giustificare l’invasione dell’Iraq accusò Saddam Hussein di possedere arsenali chimici e battereologici. Come ci ha svelato poi la Storia (ma qualcuno lo sapeva già), non era vero. Non c’erano armi di distruzione di massa nei depositi iracheni, ma la false prove presentate dall’allora segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite furono sufficienti per la Casa Bianca per accendere il segnale verde e attaccare Bagdad.

Donald Trump ha usato una tecnica da manuale. Ha lanciato le sue armi di distrazioni di massa per uscire dall’angolo politico in cui la sua incapacità di governare l’aveva schiacciato. I cinquantanove missili lanciati contro la base aerea di Shayrat per punire il regime di Banshar al Assad per l’attacco chimico contro i civili nella provincia di Idlib servono al presidente statunitense a recuperare terreno rispetto al disastroso isolamento politico della sua amministrazione dopo una incredibile serie di errori, gaffes, scandali e inchieste del Congresso e dell’Fbi, collezionati nei primi mesi del suo mandato.

Il neo inquilino della Casa Bianca aveva sostanzialmente lasciato nelle mani di Vladimir Putin la gestione della crisi siriana. Così tanto da far mutare radicalmente posizione degli Stati Uniti rispetto al destino di Assad. Se per Barack Obama , la sua uscita di scena era una pregiudiziale, l’amministrazione Trump aveva fatto sapere che invece il dittatore siriano poteva rimanere.

L’attacco con i gas ha fatto cambiare idea a Donald Trump. Il suo successore aveva tracciato una linea rossa nel 2013, all’epoca di un primo attacco con armi chimiche contro i civili. Obama stava per dare l’ordine di bombardare le strutture dell’esercito siriano quando le pressioni dell’opinione pubblica internazionale e l’intervento di Vladimir Putin l’avevano costretto a fermarsi. Ora, Trump fa quello che Obama non aveva fatto.

Perché? E soprattutto che ripercussioni ci saranno nell’area e nei rapporti con la Russia? Una prima lettura ci può far dire che il suo sia stato un rischio calcolato. Le prime dichiarazioni ci hanno fatto capire che i russi erano stati avvertiti e non si siano messi di traverso.

In questa ottica, i benefici del bombardamento per Trump sarebbero molteplici, soprattuto per il fronte interno:

  1.  Si presenta decisionista e mostra i muscoli. Si mette così a confronto con un (allora) incerto Obama. Gli americani apprezzeranno?
  2.  Irrompe nello scenario siriano, (apparentemente) pestando i piedi a Mosca. Dimostra così di non essere succube di Putin. Un modo per allontanare gli spettri di un pericolosissimo (per lui) Russiagate.
  3. Mette a tacere i suoi critici interni, soprattutto alcuni settori del Partito Repubblicano, che lo hanno criticato per i il suo atteggiamento sulla Siria.
  4. Mette in secondo piano tutti gli errori e le incompetenze mostrati nei primi fallimentari due mesi e mezzo di governo.

Ma è tutto qui? Il problema è che Donald Trump è un’incognita; un uomo e un presidente imprevedibile. Per cui, allo stato attuale, nessuno può dire che farà in Siria. Al netto del gioco delle parti, neppure Mosca sembra averlo capito fino in fondo. Si siederà al tavolo con tutti gli altri protagonisti della crisi siriana oppure dopo aver fatto il suo atto dimostrativo tornerà a disinteressarsene? Vorrà fare il Gendarme del Mondo in nome della sicurezza statunitense, oppure dopo i missili sulla base militare siriana tornerà al business as usual? I prossimi giorni daranno una risposta a questa domanda. Secondo alcuni osservatori, il bombardamento sulla Siria sarebbe anche un avvertimento nei confronti della Corea del Nord.

Non è una semplice coincidenza che l’ordine si stato dato mentre Donald Trump si trovava in Florida per incontrare il presidente cinese Xi Jinping. Un messaggio molto preciso per il Numero Uno del Regime di Pechino.

C’è un elemento in più che dobbiamo valutare per comprendere la situazione: i militari americani. Sono sempre più forti dentro la sua amministrazione. Due giorni fa, l’ideologo del trumpismo, Stephen Bannon era stato allontanato dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Questa decisione era stata vista come una vittoria per il generale Herbert McMaster, scelto da Trump come Consigliere per la sicurezza nazionale a febbraio in seguito all’allontanamento di Michael Flynn, che aveva dovuto rinunciare al posto dopo che il Washington Post aveva rivelato una serie di suoi incontri con rappresentanti russi.

McMaster, uomo di grande esperienza e conoscenza del Medioriente e del terrorismo islamico, non voleva il “politico” Bannon e le sue idee ultra radicali tra i piedi. La politica di sicurezza devono farla i generali, è il suo ragionamento. E il bombardamento in Siria sembra essere proprio una mossa studiata, suggerita o forse addirittura qualche cosa di più, dai generali.

Donald Trump ha così accettato senza grosse resistenze l’opzione militare. Perché così facendo sapeva che avrebbe ottenuto non solo i benefici di cui parlavamo prima, ma avrebbe alla fine  anche compattato la sua amministrazione (divisa appunto tra pragmatici e ideologici) dietro la bandiera dell’intervento militare.

Questa è la prima guerra del presidente Trump. Se questi sono i motivi e le dinamiche sappiamo già che non sarà l’ultima.

 

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    Redazione
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