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Le ipotesi per il voto dei grandi elettori positivi al COVID, il caos sui numeri dei contagi a scuola e le altre notizie della giornata

recovery plan elezioni (foto quirinale)

Il racconto della giornata di mercoledì 19 gennaio 2022 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30. Il vertice del centrodestra salta, Silvio Berlusconi è rimasto ad Arcore e la sua candidatura per il Quirinale sembra ormai tramontata. Sull’elezione del presidente della Repubblica, però, c’è da risolvere anche la questione del voto dei grandi elettori positivi al COVID. Non va meglio a scuola, dove regna il caos sui numeri dei contagi: da due anni si chiede al Ministero di fornire dati completi ed aggiornati mai arrivati, per cui è impossibile un controllo indipendente. I diversi capitoli con cui la ragioneria dello Stato analizza la condizione delle donne italiane sembrano un bollettino di guerra: tante battaglie, tante sconfitte. La posizione di Boris Johnson è sempre più a rischio. Dopo lo scandalo del Party Gate le pressioni affinché il l’inquilino di Downing Street si dimetta sono sempre più insistenti. Gli ultimi sviluppi confermano come, nonostante i vari incontri della scorsa settimana, la distanza tra Russia e Occidente sull’Ucraina sia sempre più grande, quasi incolmabile. Infine, l’andamento della pandemia di COVID-19 in Italia.

Berlusconi resta ad Arcore, ma non ammette la sconfitta

(di Anna Bredice)

Il vertice del centrodestra salta, Silvio Berlusconi rimane ad Arcore e, anche se fanno sapere che sta ancora telefonando per avere appoggi, la sua candidatura sembra ormai tramontata. Bisognerà solo capire se nel momento in cui ammetterà questa sconfitta, vorrà immediatamente fare lui il nome del candidato del centrodestra, diventando il kingmaker, togliendo questo ruolo a Matteo Salvini, che vorrebbe dare le carte adesso, per diventare il capo della coalizione nel 2023.
Il Cavaliere non vorrebbe uscire di scena, anche se non sarà candidato, al punto che ha dato mandato ai suoi legali di chiedere un rinvio dell’udienza per Ruby ter, prevista per il 26. Una “questione di opportunità”, dicono. Il passato e soprattutto Ruby, la cosiddetta nipote di Mubarak, che fa capolino, quasi a ricordare quanto poco istituzionale sia questa candidatura. La linea condivisa – unico accordo per ora a quanto pare – nel centrosinistra di non fare nessun altro nome prima che quello di Berlusconi sparisca sta dando i suoi frutti, è diventata una ulteriore forma di pressione su Salvini e Meloni, impossibilitati a fare qualsiasi mossa.
Dall’altra parte, nel centrosinistra i problemi non mancano e hanno un nome: Mario Draghi e le difficoltà di Giuseppe Conte di far accettare questo nome ai suoi. I due gruppi parlamentari, oltre duecento tra deputati e senatori, non reggerebbero di fronte al vuoto a Palazzo Chigi e all’incubo di una fine anticipata della legislatura.
Questa è la paura, un po’ di tutti, ma di più per un gruppo enorme e che tornerà in Parlamento a ranghi ridotti. Letta è consapevole di questo, il voto segreto potrebbe essere un’arma anche tra i suoi e oggi dice espressamente che bisogna “proteggere” Draghi, tradotto non portare il suo nome in aula e bruciarlo con i franchi tiratori.
Conte e Di Maio si sono incontrati nel pomeriggio, il loro dualismo nel movimento è palese, e forse anche nella strategia per il Colle. Di Maio forse più convinto nel trovare un nome condiviso con il centrodestra e magari favorevole a Draghi, Conte più in difficoltà, incapace di governare due gruppi in Parlamento che non conosce ancora bene.

L’ipotesi del Covid Hotel presidenziale per il voto dei grandi elettori positivi al COVID

Sull’elezione del presidente della Repubblica c’è anche una questione ancora irrisolta che riguarda il voto dei grandi elettori positivi al COVID. Come farli votare, visto che – evidentemente – non possono entrare a Montecitorio?

(di Alessandro Principe)

Una quarantina, in quarantena. Sono circa 30 i deputati e 10 i senatori oggi positivi al COVID: su 505 necessari per salire al Colle non sono pochi. Considerando che il virus sia, diciamo, trasversale ai partiti, ogni schieramento rischia di veder mancare i voti decisivi se si andasse alla conta tra candidati contrapposti. Le ipotesi in campo sono tre. 
La prima, la più logica, apparentemente: il voto da remoto. 

Ma diversi giuristi hanno dubbi sulla costituzionalità di questo metodo, la Carta parla espressamente di “seduta comune”. E Montecitorio non dispone di uno strumento informatico suo che garantisca l’assoluta segretezza.


Seconda ipotesi: il voto a domicilio. La creazione di seggi volanti a casa di deputati e senatori positivi o in quarantena. Bisognerebbe coinvolgere le Prefetture che manderebbero un delegato a ricevere le schede presidenziali garantendo la regolarità del trasporto. È una procedura che già esiste in alcuni casi previsti dalla legge per i cittadini chiamati a esprimersi dal domicilio per impedimenti certificati. Ma anche in questo caso ci sono dubbi sulla costituzionalità e sulla segretezza.

 Si fa strada quindi in queste ore la terza ipotesi, la più scenografica. Il Covid Hotel presidenziale. L’ha proposta Italia Viva e il Centrodestra la appoggia. Si tratta di prenotare un albergo che affaccia su Piazza Montecitorio. Quindi creare un percorso protetto che porti i votanti fino al Palazzo della Camera. Farli entrare dall’ingresso principale e far raggiungere loro il cortile. E lì ci sarebbe una cabina ad hoc per votare il Presidente. Votando dentro il Palazzo e in presenza non ci sarebbero dubbi né di costituzionalità né di segretezza.

Tutto questo va deciso dal Parlamento, non dal governo che può solo mettere a disposizione, ad esempio, le prefetture. Un accordo finora non c’è. È il centrodestra a spingere di più per il voto dei positivi. Il motivo è semplice: la conta dei voti, uno a uno, di Berlusconi. Tutta la questione ha meno peso nel caso di un accordo per un nome condiviso, votato da tutti.

Il caos sui numeri dei contagi a scuola

(di Massimo Alberti)

Attorno ai numeri dei contagi a scuola c’è il caos. Non è una novità: da due anni si chiede al Ministero di fornire dati completi ed aggiornati mai arrivati, per cui è impossibile un controllo indipendente. E infatti puntualmente si ripropone la guerra dei dati. Oggi, a 10 giorni dalla riapertura, il Ministro Bianchi ha dato questi numeri: 93,4% delle classi in presenza, di cui il 13,1% in didattica mista, 6,6% di classi a distanza. Ieri l’associazione presidi aveva parlato di 70% di classi in didattica mista o a distanza. Bianchi ha accusato i presidi di dare stime errate, i presidi ribattono che i loro numeri sono più aggiornati. Come detto impossibile verificare chi abbia ragione. La Lombardia, ad esempio, oggi ha diffuso i propri numeri: 5.415 classi in isolamento in 7.966 scuole, parlando di incremento evidente dopo la riapertura, dopo la discesa seguita alle vacanze. Fornendo un dato che rende bene l’idea dell’impatto dell’apertura della scuola sui casi: l’incidenza di casi per 100mila abitanti è 7.960 tra 14 e 18 anni. 9.682 tra 6 e 10 anni, quasi doppia dell’incidenza generale in Lombardia. Del resto l’andamento dei casi in fascia d’età scolare, in calo dopo la chiusura delle scuole, è già tornato in controtendenza. E va di pari passo con la crescita del 27,5% dei ricoveri pediatrici. Al di la della guerra dei numeri resta il problema politico: il mantra de “le scuole sono sicure” è stato di fatto la scusa per cui in questi due anni non si è messo mano a quei problemi strutturali – classi sovraffollate, circolazione dell’aria, nuove forme di didattica – investendo poco o nulla sulla scuola e lasciando soli genitori, studenti, lavoratori ad applicare protocolli spesso poco chiari. Che è ciò che anche oggi denunciano gli studenti con le occupazioni, così come presidi e sindacati.

Bilancio di genere: il COVID ha allargato la forbice

Meno rappresentate, meno retribuite, poco e peggio occupate. Tartassate da carichi di lavoro domestico e di cura insostenibile e da compagni violenti. Sono le donne italiane, secondo il bilancio di genere stilato dal ministero dell’Economia relativo al 2020. Il documento descrive un paese che nell’anno della pandemia ha acuito le disuguaglianze di genere e che poco ha fatto per non lasciare indietro le donne.

(di Chiara Ronzani)

I diversi capitoli con cui la ragioneria dello Stato analizza la condizione delle donne italiane sembrano un bollettino di guerra: tante battaglie, tante sconfitte. Dal lavoro, all’accesso alle cariche pubbliche, alla violenza domestica, nell’anno della pandemia quelle che erano debolezze strutturali del nostro paese si sono acuite, mostrando come le fragilità vengano scaricate sulle donne. Basti pensare al lavoro: le occupate sono arretrate ai livelli ante 2013, con il tasso di occupazione femminile sceso al 49% (con una punta in basso del 47,6% a giugno). Un abisso rispetto alla media europea, dove le occupate sfiorano il 63%. Quando il lavoro c’è, è mal retribuito e a bassa qualifica. Che questo sia legato agli squilibri dei carichi di lavoro domestico, lo dimostrano i dati relativi al part time involontario: sono un esercito che sfiora gli 1,9 milioni le donne che lavorano a tempo parziale perché senza alternativa.
Del resto durante la pandemia è ricaduto soprattutto su di loro il doppio lavoro di cura dei figli, istruzione a distanza inclusa, e smart working, come il ricorso agli ammortizzatori ha dimostrato.
Le donne sono messe da parte da un sistema, che le relega ai margini al di là del loro merito: le laureate tra i 30 e i 34 anni sono il 34%, a fronte del 21% dei laureati, tuttavia le occupate sono meno degli uomini e il divario di genere è cresciuto. Non è perciò un caso che nei posti di potere ci arrivino soltanto grazie alla contestata legge sulle quote di genere, e comunque ricoprano i posti meno prestigiosi.
A fronte di tutto questo, lo Stato fa pochissimo per ridurre le disuguaglianze di genere: solo lo 0,56% del bilancio è investito in pari opportunità. Non c’è da stupirsi, in un paese in cui le decisioni su come allocare le risorse vengono prese da uomini.

La distanza tra Russia e Occidente sull’Ucraina è sempre più grande

(di Emanuele Valenti)

“La Russia può attaccare l’Ucraina quasi senza preavviso. Gli Stati Uniti faranno in ogni caso tutti gli sforzi diplomatici possibili per evitare questo scenario”. Così il segretario di stato americano, Blinken, durante una visita a Kiev. Gli ultimi sviluppi confermano come, nonostante i vari incontri della scorsa settimana, la distanza tra Russia e Occidente sull’Ucraina sia sempre più grande, quasi incolmabile.
In queste ore alcuni analisti russi hanno detto che l’incontro di venerdì prossimo a Ginevra tra Anthony Blinken e Sergej Lavrov sarà l’ultima occasione per rimettere in carreggiata le relazioni tra Mosca e Washington. Tradotto per evitare che il Cremlino decida qualche tipo di operazione militare in Ucraina. [CONTINUA A LEGGERE SUL SITO]

Lo scandalo del Party Gate travolge Boris Johnson

(di Martina Stefanoni)

La posizione di Boris Johnson è sempre più a rischio. Dopo lo scandalo del party gate, legato alle festicciole organizzate dallo staff del primo ministro britannico in pieno lockdown – a cui ha partecipato anche Johnson stesso – le pressioni affinché il l’inquilino di Downing Street si dimetta sono sempre più insistenti.
I laburisti non aspettavano altro, e le loro richieste di dimissioni non sono una sorpresa. Ora, però, anche dal lato dei conservatori, il gruppo che invita il premier a farsi da parte è sempre più grande. Dopo le ennesime – e annacquate – scuse fatte in Parlamento, David Davis, ex ministro euroscettico della Brexit ed ex candidato alla leadership Tory, durante il Question Time alla Camera dei Comuni, ha rivolto a Boris Johnson queste parole: “Ho sempre difeso il primo ministro, ma mi aspetto che il mio leader si prenda le responsabilità per ciò che fa. E lui ha fatto esattamente l’opposto”.
Poi, riprendendo la citazione storica dell’esortazione che un deputato rivolse a Neville Chamberlain, alla guida del partito conservatore e del governo agli albori della Seconda Guerra Mondiale, ha detto: “In the name of god, go. Nel nome di Dio, dimettiti”.
Poco prima il deputato conservatore Christian Wakeford ha annunciato il suo passaggio nel Labour party, accusando il premier di essersi dimostrato “incapace di dare al Paese la guida che merita”. Wakeford è stato subito accolto a braccia aperte dal leader laburista Keir Starmer.
Secondo gli osservatori, i giorni di Johnson sono contati, ma gli scenari davanti al premier sono diversi. La prima opzione è quella delle sue dimissioni. Opzione che però – a meno di colpi di scena – sembra si possa escludere. Anche oggi Johnson ha ribadito la sua non intenzione a lasciare volontariamente il posto. Altra possibilità è il voto di sfiducia, a cui stanno lavorando i deputati ribelli riuniti nel cosiddetto “complotto della pork pie”. Solo questa mattina sono state inviate 12 lettere (ma altre sarebbero in arrivo da parte dei 20 ribelli) che invitano il premier in carica a farsi da parte: ne servono 54 per attivare la procedura del voto di sfiducia.
L’altra opzione è quella che viene chiamata “A visit from the men in grey suit”, una visita dagli uomini in abito grigio. Un modo per dire che – anche senza voto di sfiducia – il primo ministro potrebbe ricevere pressioni dai grandi del partito per dimettersi, come era successo a Theresa May.
Come effettivamente andrà è difficile da stabilire anche se a questo punto sembra difficile immaginare che Johnson riesca a ribaltare le carte in tavola. Il primo ministro è sempre più impopolare e pochi, ormai, sembrano disposti a tollerare altri scandali del genere.

L’andamento dell’epidemia di COVID-19 in Italia

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