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Non porta i tacchi? Licenziata

A Londra un’impiegata è stata licenziata perché si è rifiutata di indossare scarpe con il tacco. Nicola Thorp, 27 anni, era stata assunta come addetta alla reception di una società finanziaria e doveva passare nove ore al giorno ad accompagnare i clienti alle riunioni: nove ore al giorno in piedi.

Aveva chiesto dunque di poter indossare delle scarpe eleganti ma basse. È stata lasciata a casa senza neppure essere pagata per la giornata di lavoro. La ragazza ha raccontato che i suoi superiori l’hanno derisa quando ha chiesto perché agli impiegati uomini non fosse richiesto di indossare i tacchi.

L’episodio è avvenuto nel novembre 2015 ma è diventato pubblico solo oggi. La ragazza, appena giunta a casa, quasi si vergognava di parlare dell’accaduto. Ma dopo aver raccontato la sua storia su Facebook, ha scoperto che altre donne in Gran Bretagna avevano avuto la stessa esperienza. Una cameriera canadese aveva pubblicato una foto delle sue dita dei piedi sanguinanti, dopo aver passato giornate e giornate di lavoro sui tacchi. La foto è stata condivisa 11mila volte su Facebook.

Nel giugno 2015 la compagnia di bandiera israeliana El Al era stata criticata in Israele per una circolare in cui imponeva alle hostess di indossare scarpe con il tacco finché tutti i passeggeri non fossero saliti a bordo e non si fossero seduti. Un gruppo per i diritti delle donne aveva chiesto all’amministratore delegato di El Al di “provare a camminare sui tacchi almeno per un’ora prima di dare disposizioni dannose per la salute delle hostess senza apparente motivo”. Ma in tanti Paesi ci sono regole simili e nessuno ne fa un problema.

La legge britannica per esempio consente ai datori di lavoro di prevedere un dress code e di licenziare gli impiegati che non lo rispettano. Nicola Thorp ha dunque lanciato una petizione sul sito del Parlamento Britannico dal titolo: “Rendete illegale per un’azienda pretendere dalle donne che indossino tacchi alti al lavoro”.

Il testo della petizione recita: “È ancora legale in Gran Bretagna che le aziende possano pretendere che le loro dipendenti donne indossino tacchi alti, anche se non vogliono. Le leggi sui codici d’abbigliamento dovrebbero essere cambiate in modo che le donne abbiano la possibilità di indossare scarpe basse formali durante il lavoro, se lo desiderano. I dress code attuali sono antiquati e sessisti”.

La petizione ha raccolto già oltre 21mila firme. Le regole del Parlamento britannico prevedono che il governo debba pubblicamente rispondere, se una petizione supera le 10mila firme. Dunque il governo Cameron dovrà dare una risposta. Se la petizione dovesse raggiungere le 100mila firme, il caso diventerebbe addirittura oggetto di un dibattito parlamentare.

Intanto l’azienda londinese dove lavorava la ragazza ha detto di essere venuta a conoscenza dei fatti soltanto ieri. Che Nicola in realtà era assunta da un’altra ditta che aveva in appalto il servizio di reception. Quest’ultima azienda – visto il clamore – ha promesso che terrà conto del problema e rivedrà le sue politiche sui codici di abbigliamento “d’accordo con i suoi clienti”. Come a dire che sono i clienti a richiedere che le impiegate portino i tacchi.

Pare che l’impresa avesse anche chiesto alla ragazza di truccarsi e le aveva dato un’indicazione sui colori accettabili. “Puoi portare i pantaloni se vuoi” le era stato detto “ma i clienti preferiscono che tu porti la gonna”.

Nicola – intervistata dalla tv britannica Bbc – ha spiegato che indosserebbe i tacchi se qualcuno le desse un valido motivo per cui con i tacchi farebbe meglio il suo lavoro. “Per quale ragione con i tacchi apparirei più professionale?”. E aggiunge: “Penso che i codici di abbigliamento debbano riflettere la società e al giorno d’oggi le donne possono essere eleganti anche con le scarpe basse”.

Il sito del quotidiano Daily Mail aggiunge altri particolari alla storia. Dopo l’episodio, la ragazza si era rivolta a un servizio di consulenza anti-discriminazione, ma lì le avevano spiegato che non è discriminatorio imporre alle donne di portare i tacchi sul lavoro perché le donne già li portano abitualmente nella vita privata, mentre gli uomini no.

L’impresa le aveva proposto un compromesso: “Tu porti le scarpe basse, noi ti mandiamo solo dai clienti che lo tollerano e tu spieghi che hai problemi alla schiena”. Ma la giovane non ha accettato: “Non vedo perché dovrei inventarmi problemi alla schiena solo perché sono una donna”.

“Questi codici d’abbigliamento esistono perché c’è ancora un’immagine stereotipata delle donne” continua Nicola. “La gente dice che i tacchi rendono una donna più femminile, ma perché dovrei per forza esprimere la mia femminilità al lavoro?”.

“Le aziende spesso vogliono avere solo delle ragazze carine da mettere in mostra alla reception” continua Nicola. “Le cose devono cambiare. Quello della libertà di portare o no i tacchi mi sembra solo un piccolo passo in termini di eguaglianza e di diritti. Ha aperto una discussione su cosa significa essere donne e cosa viene chiesto alle donne sul lavoro”.

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    “Potevano entrare tutti quelli che non facevano entrare negli altri locali” racconta la cantante e musicista Patrizia Di Malta ricordando il celebre Plastic. Nel locale “ci si sentiva quasi in una piccola New York”: era un catalizzatore di musica, mode e culture alternative internazionali, nonchè punto di riferimento della comunità queer. “Anche solo fare la fila fuori era parte dell’esperienza” continua Piergiorgio Pardo, “c’era una selezione all’ingresso, pensata per far stare bene persone eccentriche che lì non si sentivano giudicate”. Ascolta l’intervista di Elisa Graci e Dario Grande.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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