Credo di capire come mai vengano disattese le indicazioni della Corte e non si legiferi sul “fine vita”; l’ambrosenza vederlo, grazie a destra e sovranisti, il Parlamento sta agendo il “fine vita” della democrazia, almeno nella forma pensata e realizzata dopo sconfitta del nazifascismo e affermazione di Repubblica e Costituzione. So di dire cose impegnative, ma la verità non deve far paura quando si parla di verità psicologica. La psiche è fatta di parti consce (pensieri, dati, decisioni) e inconsce, cioè le Ombre: quel che non vogliamo vedere ma c’è; buio e nero son dentro di noi prima che oscurità esterna. Voltarsi è la nostra cecità. Morte e tenebre ci son note, intime, familiari. La morte fa paura proprio in quanto evento naturale; si sa, c’è, un giorno ci toccherà. Parlare di “fine vita” insomma apre al “ritorno del rimosso” per dirla con il Freud del “perturbante”: qualcosa di familiare che se lasciato perdere presenta di suo o per mano d’altri il conto quando meno te l’aspetti. Personale è metafora del sociale. Vivere la Notte della Repubblica (la destra che vuol demolire Mattarella!) è reggere la contraddizione senza subirla, assumersi la responsabilità di gestirla: la democrazia ha potenzialità autodistruttive in sé, di autoeutanasia, ma possiede costitutivamente semi di vita, speranza, cambiamento, riscossa, rinascita. In tale spirito parliamo di “fine vita” senza timori, recuperiamo il coraggio di confrontarci, cercar soluzioni che aggreghino il più possibile e all’atto delle decisioni offrano il massimo di rispetto per chi non si riconosce nelle norme adottate e garanzie di scegliere da persone libere. È la laicità della res pubblica! Altrimenti è Stato etico: Dio, patria, famiglia; o doppia morale di quelli che predicano per gli altri “valori cristiani” e “Occidente” e a sé riservano l’etica prêt-à-porter. Parlare di “fine vita” è una sorta di pedagogia democratica. Ad esempio può suscitare nell’opinione pubblica domande su cosa significa che certa destra ha nel Dna un universo simbolico “mortifero”: ossa incrociate, teschi, pugnali, gladi, ma nega il “fine vita” e stigmatizza come nemico della civiltà chi ne parla. E poi il nero, il buio opposto della luce della conoscenza e della forza dell’eros che fa incontrare l’altro per quel che è, l’indistinto che può esser terreno di coltura di germi di contagio psichico: inocula paure di futuro, insicurezze, proiezioni su pericoli esterni nella nebulosità tra reale e presunzione. Ci sarà un motivo per cui destre e sovranisti sfuggano al “fine vita” ma esaltino le difficoltà della democrazia, la fan sembrare superflua, inutile; e come rimedio progettano un premierato che dovrebbe curarne le inefficienze senza valutare (o fingendo di non vedere) che se si accentra il potere in un uomo (o donna) solo/a al comando la democrazia finisce, muore. Parlar di “fine vita”, accogliendo la complessità che gli è propria, è vegliare sulla libertà, amarla per sé e per l’altro, interrogarsi con Isaia (quanto c’è bisogno oggi di profezia!) su «quanto resta della notte», sapere che «viene il mattino, poi anche la notte», e poi il mattino. È vivere.


