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Paradisi fiscali e giustizia economica

Paradisi fiscali e giustizia economica

In un’economia globalizzata, la ricerca della cosiddetta ottimizzazione della ricchezza porta spesso individui e aziende a frequentare un mondo poco noto ma molto influente, quello dei paradisi fiscali. Non si tratta solo di isole esotiche, ma anche di paesi europei come Irlanda, Lussemburgo, Svizzera e Paesi Bassi, tutti citati nella top-ten stilata dal Tax Justice Network nel suo report più recente. Ne fanno parte anche tre territori dipendenti dal Regno Unito: le Isole Vergini, le Cayman e le Bermuda.

Un paradiso fiscale è caratterizzato in primo luogo da tasse basse o nulle, facilità di creazione di entità legali e sistemi, soprattutto bancari e finanziari, difficili da penetrare per le autorità straniere. Funziona attraverso reti intricate di società di comodo, trust e conti offshore. Tutto è tecnicamente legale, ma progettato per sfruttare le lacune della normativa fiscale internazionale.

La natura più segreta dei paradisi fiscali è stata portata alla ribalta globale da una serie di fughe di notizie, iniziate con i Panama Papers del 2016, una raccolta di 11 milioni di documenti riservati che riguardavano politici, celebrità e magnati protagonisti di schemi di evasione fiscale offshore. Nel 2017, una nuova fuga di notizie, quella dei Paradise Papers, ha rivelato il ricorso ai paradisi fiscali offshore da parte di alcune delle più ricche multinazionali, tra cui Apple, Nike e Uber, oltre a figure pubbliche come la Regina Elisabetta II. Più recentemente, i Pandora Papers del 2021 hanno evidenziato come l’élite continui a nascondere enormi quantità di ricchezza.

Secondo stime attendibili, fino a 32 trilioni di dollari sarebbero parcheggiati in centri finanziari offshore, privando i governi di importanti entrate fiscali. Questa rivelazione ha riacceso il dibattito sul ruolo dei paradisi fiscali nelle disuguaglianze globali. Mentre i ricchi e le grandi aziende ricorrono a giurisdizioni privilegiate per eludere i loro obblighi fiscali, i contribuenti ordinari sono costretti a farsi carico delle voragini che si aprono nelle casse pubbliche.

Forse l’uso più sistematico dei paradisi fiscali è quello che ne fanno le maggiori multinazionali. Lo strumento più gettonato in Europa è il cosiddetto Double Irish with a Dutch Sandwich, una triangolazione che sposta i profitti tra sussidiarie irlandesi e olandesi prima di farli confluire verso paradisi fiscali caraibici.

Per porre un limite a questo gioco sporco, l’OCSE ha promosso un accordo fiscale globale, sottoscritto dai paesi del G7, che impone un’aliquota minima del 15% sui profitti. Tuttavia, i critici sostengono che questa misura, pur costituendo un passo nella giusta direzione, non è sufficiente per affrontare i problemi posti dai paradisi fiscali, soprattutto per i paesi del Sud globale, che sono colpiti in modo proporzionalmente più pesante dalla fuga di capitali verso giurisdizioni offshore.

I paradisi fiscali sono così diventati un campo di battaglia nella lotta per la giustizia economica. Tuttavia, i sistemi finanziari dei paradisi fiscali sono profondamente radicati e molti paesi hanno un interesse diretto a mantenere lo status quo. Inoltre, la complessità delle leggi fiscali internazionali fa sì che anche le riforme animate da buone intenzioni possano essere facilmente aggirate.

Man mano che il mondo diventa sempre più interconnesso, gli scambi finanziari e il dibattito sui paradisi fiscali continueranno a evolversi. Ma la domanda rimarrà la stessa: “L’economia mondiale, che ha prosperato su questi meccanismi, potrebbe sopravvivere all’equità fiscale?” La risposta non è scontata e potrebbe cambiare il futuro della globalizzazione.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    “Quelle che arrivano dalla maggioranza sono delle sciocchezze, che sarebbero grottesche se non fossero pericolose perché tradiscono una chiara volontà di creare un clima di paura e di allarme, criminalizzando tutta la galassia dell’opposizione”. Così Benedetta Tobagi, intervistata da Luigi Ambrosio all'Orizzonte delle Venti, sui reiterati attacchi del Governo alle opposizioni accusate di fomentare la violenza. “Anche per ciò che porto nel mio nome, l’Italia ha nella sua storia una sinistra antifascista e democratica che non è mai stata violenta. Figure come mio padre e Aldo Moro sono state colpite addirittura dal terrorismo di sinistra. Questa è la storia che vergognosamente Meloni, Tajani e Salvini non riconoscono e che, invece, deve essere la nostra forza”.

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    In diretta dall'Ucraina Sabato Angieri ci racconta delle profonde differenze che ormai segnano il paese tra territori in guerra e retrovie, di chi non vuole andarsene nonostante la guerra abbia distrutto spazi e vite e di come il fronte insista da due anni sugli stessi campi. Gianpaolo Scarante, docente all'Università di Padova ed ex-diplomatico analizza lo scontro verbale tra Russia e Nato e invoca il ritorno della ragione per evitare una escalation dei fatti. Emanuele Valenti ci aggiorna sull'entrata dei carri armati a Gaza City dopo giorni di bombardamenti mirati a distruggere tutti i palazzi principali della città per forzare la popolazione ad andarsene. Ma la popolazione non ha nessun posto dove andare. E anche chi avrebbe un visto di studio in Italia non riesce a uscire dall'inferno della Striscia lo raccontano le voci di alcuni degli studenti palestinesi che hanno vinto una borsa di studio nelle università italiane. Molti di loro hanno diffuso appelli sui social per chiedere di fare pressione sulle autorità italiane affinché organizzino la loro evacuazione immediata. Sentiamo le loro voci e ci spiega come stanno, chi sono e perché non si riesce ad aprire un corridoio umanitario per loro Stefano Simonetta, Prorettore ai Servizi agli Studenti e al Diritto allo Studio della Università Statale di Milano.

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