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La pace dovrà ancora attendere in Colombia

Sono stati alla fine 61.000 i voti che hanno demolito l’illusione di una nuova Colombia in pace. Gli accordi così faticosamente raggiunti dopo 4 anni di lavoro all’Avana tra il governo e la guerriglia delle FARC sono saltati in aria, sconfitti nel plebiscito di ieri nel paese sudamericano nel quale hanno votato solo il 37,5% degli aventi diritto. Un risultato così clamoroso che addirittura non era previsto un piano B negli accordi. Come superare l’eventuale no nel plebiscito che la Corte Costituzionale aveva imposto al Presidente Juan Manuel Santos per confermare gli accordi non è scritto da nessuna parte. Ancora più grave della vittoria del No, è che il 65% degli elettori colombiani non ha partecipato al voto, come se la posta in gioco fosse marginale. Ancora una volta si è verificata la distanza tra il sentimento dell’opinione pubblica internazionale e la realtà interna a un paese che ha subito un lungo conflitto.

Questo risultato non nasce dal nulla però. Sono due i fattori da considerare. Il primo la bassa popolarità della guerriglia. Se è vero che i membri delle FARC, e i civili nelle zone del conflitto, hanno subito violenze di ogni genere in questi decenni ad opera dell’esercito e dei gruppi paramilitari foraggiati dai latifondisti, è anche vero che le FARC hanno utilizzato l’arma del sequestro, fortemente impopolare, come fonte di finanziamento e sono state anche conniventi con il narcotraffico fino a confondersi in alcune regioni e a giustificare il titolo loro appiccicato di “narco-guerriglia”. Altra causa importante della sconfitta è stato il lavoro incessante del falco della situazione, l’ex Presidente Alvaro Uribe , leader dell’ala dura della politica colombiana che rifiuta il dialogo con la guerriglia. Uribe, figlio di una vittima dell’ELN, l’altra guerriglia colombiana, ha motivato l’opinione pubblica perchè rifiutasse un accordo che prevedeva una formula alla sudafricana: chi avrebbe confessato le proprie azioni violente sarebbe stato amnistiato.

Sarebbe riduttivo però dire che i colombiani hanno scelto per la continuazione del conflitto. In realtà hanno però di fatto impedito che si concludesse perché queste erano le condizioni concordate e trovarne delle altre sarà molto difficile. Sarà difficile che la guerriglia accetti di cancellare il lavoro degli ultimi 4 anni, oltre al danno diplomatico dello stato colombiano con i paesi che si erano esposti nella mediazione, in primis USA, Venezuela e Cuba.

Ieri in Colombia poteva chiudersi definitivamente il capitolo della Guerra Fredda nel continente americano, ma così non è stato. L’incubo del conflitto armato, che stamattina doveva fare parte del passato, è ancora lì. Le prime dichiarazioni del governo e della guerriglia sono state di serenità e cautela, ma non sarà facile riprendere il dialogo dopo questa sberla.

La pace può ancora attendere in Colombia.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    Kei Pritsker, regista con Michael T Workman del documentario “The Encampments”, racconta ai microfoni di Radio Popolare i retroscena della protesta studentesca pro Palestina alla Columbia University. “Gli studenti della Columbia protestano da anni per la Palestina e per ottenere che l’università dismetta gli investimenti in Israele – spiega Pritsker. L’università ha un ingente fondo di dotazione che investe in ogni sorta di attività, molte delle quali riguardano aziende produttrici di armi, aziende manifatturiere che realizzano armamenti, motori per elicotteri, bulldozer e ogni tipo di attrezzatura utilizzata in queste operazioni”. “The Encampments” fa parlare i ragazzi e le ragazze di questo movimento studentesco che dall’aprile del 2024 ha montato le tende nel giardino del Campus per chiedere trasparenza, il ritiro del denaro dagli investimenti israeliani e l’amnistia per gli studenti puniti per le proteste. “Chiunque creda ancora a questa narrativa sull’antisemitismo nel movimento per la Palestina dovrebbe semplicemente guardare il film – assicura Kei Pritsker”. Al momento “The Encampments” ha una distribuzione indipendente che lo diffonde nei cinema più coraggiosi. L'intervista di Barbara Sorrentini per la trasmissione Chassis.

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