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Nel 2017 Mazen al-Hamada raccontava la Siria sotto Assad

Giovani siriani reggono la foto di Mazen al-Hamad al suo funerale a Damasco

Una delle prime cose che i siriani hanno fatto dopo la presa di Damasco da parte dei ribelli di Hay’at Tahrir al Sham e la caduta del regime di Assad è stato andare alla prigione di Sednaya. Un luogo che – a soli 30 km a nord della capitale – è diventato nel tempo il sinonimo della brutalità del regime di Assad. È il luogo in cui il governo siriano ha imprigionato, torturato e massacrato il suo popolo. Ogni famiglia Siriana ha almeno un parente che è stato arrestato, torturato o ucciso. Così, all’indomani della liberazione da Assad, centinaia e centinaia di persone sono andate a Sednaya in cerca dei propri cari. Hanno cercato nel buio i loro nomi sui registri, hanno aperto le celle, scavato per cercare le celle nascoste nei sotterranei, sperando di trovarli ancora vivi. Qualcuno vivo, da lì, ci è uscito. Molti altri no. Tra questi ultimi, c’era Mazen al-Hamada, considerato un simbolo dagli attivisti siriani. Era stato arrestato due volte nei primi anni della rivoluzione siriana, poi, dopo la scarcerazione, nel 2013, era andato in esilio nei Paesi Bassi e aveva iniziato a raccontare ciò che faceva il regime. Il Washington Post ha scritto che grazie a lui «il mondo non poteva più dire di non sapere». Nel 2020 Assad annunciò un’amnistia generale, e al Hamada si fidò, e tornò in Siria.
Il regime siriano gli consegnò un visto per la Siria all’ambasciata di Berlino con la promessa di incolumità, e garantì che in cambio del suo ritorno avrebbe liberato altri prigionieri. Al Hamada fu arrestato appena sbarcato all’aeroporto di Damasco e scomparve. Scomparve fino a domenica 8 dicembre 2024, quando il suo corpo è stato ritrovato, torturato un’ultima volta prima che venisse ucciso nella prigione di Sednaya, a poche ore dalla caduta del regime.
Giovedì centinaia e centinaia di persone hanno partecipato al suo funerale, per le vie di Damasco.

Nel 2017, Mazen al-Hamada era stato a Milano, ed era venuto in Radio, dove era stato intervistato da Emanuele Valenti. Un’intervista che vi riproponiamo oggi, a pochi giorni dalla sua morte, perché niente come il racconto di chi ha vissuto sulla sua pelle la brutalità del regime di Assad, può spiegare da che cosa la Siria si è liberata questa settimana.

 

Mi chiamo Mazen al-Hamada e sono siriano, di Deir el-Zor. Prima del 2011, lavoravo per una compagnia di esplorazione petrolifera francese, dove ho lavorato per 10 anni. Nel 2011, sono stato fra i primi nella mia città a mettere in piedi i movimenti non violenti di protesta.

Prima del 2011, qual era il discorso politico in Siria? Cosa si poteva dire e cosa no? Quanto si parlava del regime? Quanto lo si criticava pubblicamente, nella vita privata e nell’ambiente lavorativo?

Il lavoro politico, o l’agire politico in generale, prima dell’inizio della rivoluzione del 2011 in Siria, era completamente segreto. Non si faceva nulla alla luce del sole. Vengo da una famiglia politicizzata, che era già attiva politicamente. Avevo due fratelli che sono stati incarcerati ben prima della rivoluzione: uno per dieci anni e l’altro per dodici.

Nel tuo caso specifico, il discorso politico e le critiche nei confronti del regime in ambito familiare erano la normalità?

Sì, già prima del 2011. Ci sono state anche altre mobilitazioni, come quella di [parola mancante] nel 2004, o la mobilitazione portata avanti dai curdi che ha toccato anche Deir el-Zor, che è una zona a maggioranza araba. Ci sono state altre mobilitazioni di vario genere, sempre represse nel sangue e spacciate dal regime siriano come manovre esterne, soprattutto di fronte ai media a lui compiacenti e ai media occidentali. Io ero già stato arrestato in Siria nel 2004 e nel 2007, sempre perché chiedevamo uno stato di diritto, democrazia, uno stato civile guidato da una Costituzione. In quelle occasioni, le accuse erano sempre le stesse: l’indebolimento del sentimento patriottico, il danneggiamento dell’opinione pubblica nazionale, la diffusione di notizie false, oltre all’accusa di fomentare le divisioni intercomunitarie.

Sei stato arrestato due volte prima dell’inizio della crisi. Cosa è successo in quei casi specifici? Com’è stata la tua esperienza in carcere nel 2004 e nel 2007?

Prima dell’inizio della rivoluzione, gli arresti spesso si traducevano in fermi di qualche mese, ma non c’era la stessa violenza che abbiamo visto successivamente, o almeno non nei confronti degli attivisti meno in vista. A partire dal 2011, invece, l’uso della violenza è aumentato notevolmente e si è generalizzato. Questo è accaduto nonostante, all’inizio, non chiedessimo neanche la caduta del regime, ma solo delle riforme. Chiedevamo libertà, dignità, giustizia sociale e uno stato di diritto che fosse una patria per tutti i cittadini e le cittadine.

Quindi, anche nel tuo caso, il trattamento e il contesto nel 2004-2007 sono stati molto diversi rispetto a ciò che è accaduto durante la crisi e la guerra iniziata nel 2011?

Sì, decisamente. La situazione era molto diversa nel 2004 e nel 2007. Dopo il 2011, invece, gli arresti sono diventati molto più violenti, a partire dalle stesse circostanze dell’arresto. Nel marzo del 2012, proprio nell’anniversario dell’inizio della rivoluzione, sono stato arrestato e ho subito quella che chiamano ‘festa di benvenuto’: sono stato picchiato con calci di fucile, tubi di gomma e di metallo, mentre ero bendato, denudato e ammanettato con le mani dietro la schiena. Prima ancora di sapere di cosa fossi accusato. Ho trascorso i primi due o tre mesi in una cella di 2 metri per 3, insieme ad altre 12-13 persone. Questo era il tempo medio di attesa prima di essere sottoposti ai primi interrogatori.

Prima ancora che arrivasse il mio turno per la tortura, vedevo morire persone e assistevo ogni giorno alla tortura di altri. Ero lì ad aspettare il mio turno. Quando è arrivato il momento del primo interrogatorio, mi hanno sdraiato per terra. Quattro uomini mi sono saltati addosso, rompendomi tutte le costole, sia anteriori che posteriori, colpendomi con pugni e calci su tutto il corpo, compreso il volto.

Mi chiedevano di confessare cose che non avevo fatto. Io facevo parte di movimenti non violenti e chiedevamo democrazia e diritti. Volevano però che confessassimo altro, per preparare rapporti da presentare alle Nazioni Unite e sostenere che era in corso un attacco terroristico, una rivolta guidata da persone armate. Dal 2012, tutti confessavano di aver impugnato le armi, compresi i più giovani, bambini di 7-8 anni, e anche le donne.

Chiunque arrivava a confessare questo. All’epoca eravamo in una fase in cui la violenza era solo agli inizi. Nell’ultimo e più doloroso dei miei arresti, non ero solo quando sono stato preso. Ero con due miei nipoti, figli di mia sorella: uno di 24 anni, uno studente di architettura, e uno di 23 anni, che aveva un titolo da operatore sanitario.

Tornando alle torture, quando è venuto il mio turno, dopo avermi rotto le costole, sono stato appeso per le braccia con delle manette. Sono stato sollevato di una quarantina di centimetri dal pavimento e, in quella posizione, sono stato percosso in tutti i modi. Il peso del mio corpo gravava tutto sui polsi, la carne veniva strappata dalle manette, e sentivo come se si stessero staccando.

Successivamente, siccome non avevo confessato quello che volevano loro, ma solo le mie attività non violente, hanno utilizzato altri metodi. Uno dei più terribili è stato l’applicazione di una morsa sul mio pene, che veniva stretta sempre di più, tanto da darmi l’impressione che mi stessero evirando. Nel frattempo, venivo sodomizzato con un oggetto metallico, che mi ha anche lacerato l’intestino. Contemporaneamente, c’erano altre persone che mi picchiavano.

Le torture erano molto fantasiose. Oltre a quelle che ho descritto, c’erano questi spuntoni metallici che venivano arroventati e passati addosso, le bruciature di sigarette, l’acqua rovente, la corrente elettrica, il cosiddetto ‘trono tedesco’ o la tortura della ruota, in cui i prigionieri venivano costretti all’interno di pneumatici, fatti rotolare e percossi. C’erano tanti altri metodi estremamente creativi.

I servizi di sicurezza siriani sono un’eccellenza nei metodi per distruggere completamente una persona, sia fisicamente che psicologicamente, riducendola in frammenti. Un’eccellenza nei metodi di morte.

Queste procedure continuavano fino a quando non c’era qualche tipo di ammissione da parte vostra?

Oltre al momento della tortura, le stesse condizioni di detenzione erano di per sé una tortura. Al momento del cibo o di espletare i bisogni corporali, c’erano sempre umiliazioni o torture. Per esempio, avevamo la possibilità di andare al bagno due volte al giorno e ogni volta per un solo minuto. Ci ammanettavano le mani dietro la nuca e dovevamo camminare abbassati verso il bagno, venendo percossi durante tutto il tragitto. Una volta arrivati, c’era un bagno ogni cinque persone e dovevamo entrare tutti insieme. In un minuto dovevamo espletare tutto quello che avevamo da fare, anche uno addosso all’altro, e poi tornare a rannicchiarci nella stanza in cui eravamo rinchiusi.

C’era qualche tipo di processo, anche fittizio, al termine di questi interrogatori e dopo le ammissioni da parte dei detenuti, oppure no?

Io sono stato più fortunato di altri. Dopo un anno e sette mesi sono stato trasferito in un luogo di detenzione per detenuti in attesa di giudizio. Dopo un altro mese, mi sono presentato di fronte al tribunale speciale antiterrorismo e, appena arrivato, ho mostrato le ferite che avevo sul mio corpo al giudice, dichiarando che le confessioni precedenti che avevo rilasciato erano dovute alle torture e che, quindi, le stavo ritrattando. Il giudice ha preso atto che avevo ritrattato le confessioni e, mosso a compassione, ha deciso di liberarmi. Uscendo dal tribunale, sono stato subito preso perché mi hanno detto che c’era ancora in sospeso un’accusa di manifestazione non autorizzata. Mi hanno trattenuto per altri tre mesi e ho subito un ulteriore processo presso lo stesso tribunale, alla fine del quale sono stato liberato.

Persino l’ospedale militare 601, quello da cui provengono le foto della mostra Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura, che doveva essere un luogo di cura, era stato trasformato in un mattatoio per esseri umani. Durante il periodo di detenzione venivamo spostati da una cella all’altra. La cella principale in cui ho passato più tempo era di 12 metri per 6 e c’erano 170 persone. Stavamo tutto il tempo rannicchiati, con il mento sopra le ginocchia, uno sopra l’altro, uno affianco all’altro. Quando c’è stato l’attacco con le armi chimiche sulla periferia di Damasco il 21 agosto del 2013 e ci furono minacce da parte degli Stati Uniti di un possibile intervento militare, siamo stati spostati negli hangar dei caccia. Il luogo di detenzione in cui mi trovavo era di fatto un aeroporto militare, ed eravamo utilizzati come scudi umani. Nel caso in cui gli americani avessero colpito il regime, questi avrebbe potuto, con un colpo solo, liberarsi dei prigionieri e accusare gli statunitensi di un massacro di civili. La stessa cosa accadeva quando l’esercito libero avanzava verso l’aeroporto militare. In quei casi, venivamo fatti schierare lungo la linea del fronte e con gli altoparlanti dicevano: ‘Se avanzate, li uccidiamo tutti’.”

Quante volte sei stato arrestato dall’inizio della crisi?

Tre volte.

Chi erano i tuoi compagni di prigione? Il presidente Assad ha sempre detto: ‘Sono l’ultimo baluardo contro l’estremismo islamico’, ma chi c’era con te nelle carceri siriane?

Molti attivisti noti, attivisti non violenti. Ci tengo a sottolineare che, a partire dal 2011, per un anno intero, la rivolta siriana è stata non violenta. Durante quell’anno, però, le retate e la repressione con l’uso delle armi non sono mancate. Era inevitabile che, rispondendo alle manifestazioni con le armi da fuoco, prima o poi anche i manifestanti le avrebbero impugnate. Questo è garantito da tutte le norme del diritto internazionale, ma anche dalle leggi morali di tutte le religioni monoteiste. La Torah, la Bibbia, i Vangeli e il Corano assicurano il diritto all’autodifesa di una popolazione. Non ci si poteva aspettare nulla di diverso. Fino al 2013, in Siria non esistevano organizzazioni estremistiche; né l’ISIS né il Daesh erano presenti. Eppure, già centinaia di migliaia di morti erano stati registrati. Di fatto, Bashar al-Assad è la testa del serpente e la causa prima della diffusione e dello sviluppo del terrorismo in Siria.

È impensabile e inimmaginabile riuscire a sconfiggere il terrorismo se non si rimuove la causa principale, che è da ricercare nel regime e nel capo del regime. Del resto, non è un caso se la politica di Bashar al-Assad, in passato e fino al 2003, con l’invasione statunitense dell’Iraq, era stata quella di far passare i jihadisti attraverso la Siria per raggiungere l’Iraq, al fine di fare guerriglia e destabilizzare il paese. Questo è stato denunciato anche dall’allora presidente dell’Iraq. Successivamente, molti di quei terroristi sono stati arrestati e la gran parte sono stati rilasciati dalle carceri di Assad poco dopo l’inizio della Rivoluzione, costituendo le classi dirigenti dei movimenti islamisti e, in generale, di quelli estremisti. È evidente il legame di causa ed effetto fra il regime di stato, le sue politiche e lo sviluppo dei movimenti estremistici in Siria. Il regime di Bashar al-Assad è sicuramente uno dei grandi protagonisti dell’estremizzazione della guerra in Siria. Ha incarcerato tutte le migliori menti della rivoluzione: i pensatori, gli attivisti, per lasciare andare i jihadisti dalle sue carceri e, in questo modo, ha sviluppato l’integralismo islamico nel paese. Non c’è altro modo per sconfiggere l’integralismo se non quello di tagliare la testa del serpente. La sconfitta di Bashar al-Assad e la sua rimozione sono il primo passo per pensare di risolvere il problema del terrorismo, non solo quello della democrazia, per quanto riguarda la Siria.

Tutte le organizzazioni che si auto-definiscono islamiche, ma che in realtà sono semplicemente organizzazioni terroristiche, garantiscono quegli stessi interessi internazionali che Bashar al-Assad aveva protetto, sotto il tavolo, nei cinquant’anni precedenti. Mi riferisco in particolar modo allo sfruttamento delle risorse naturali del paese, come gas, petrolio, fosfati e uranio. Quando Bashar al-Assad perdeva il controllo su una parte del paese, le aziende coinvolte si avvalevano della protezione di organizzazioni come Daesh (ISIS), garantendo così i propri interessi. Questo è un aspetto significativo rispetto alla reale volontà di sconfiggere queste organizzazioni. Tali organizzazioni non possono essere definite islamiche. L’Islam è una religione di pace, una religione di convivenza che condivide la stragrande maggioranza dei valori umani e umanitari presenti in tutte le altre religioni rivelate. È una religione che affonda le sue radici nelle tradizioni ebraico-cristiane, che sono anche alla base della civiltà mediterranea e europea.

Mazen, ora che vivi in Europa e hai iniziato a guardare alla crisi siriana dall’esterno, perché, nonostante tutto quello che ci hai raccontato, l’opinione pubblica e, soprattutto, la risposta della classe politica in Europa e in Occidente sono sempre state così deboli? I racconti di queste tragedie non sono stati sufficienti a far cambiare il corso delle cose? Per quale motivo?

Senza dubbio, la presenza di Assad è importante per i paesi europei, in quanto garantisce gli interessi economici e geopolitici nell’area. È anche un garante della sicurezza di Israele. Ci sono quindi due elementi principali: la sicurezza di Israele e la protezione degli interessi politici ed economici europei. Inoltre, va detto che, mentre i peggiori crimini contro l’umanità venivano commessi sotto gli occhi del mondo, documentati da telecamere, microfoni e telefonini, l’assenza di intervento da parte di chi aveva firmato le convenzioni internazionali che li impegnavano a difendere i diritti umani e proteggere la popolazione civile rendeva difficile giustificare la propria inazione di fronte a tali violazioni.

Sono convinto che l’unico momento in cui si aprirà veramente il dossier sui crimini contro l’umanità commessi da Bashar al-Assad sarà quando le grandi potenze internazionali avranno trovato una quadra sui loro interessi e potranno fare a meno di questo regime, abbandonandolo. Fino a quel momento, però, continueranno a sostenere Assad, mantenendo in piedi anche il terrorismo, per giustificare ogni forma di intervento e azione nel paese. Questo verrà venduto alle opinioni pubbliche europee come una lotta contro il terrorismo, ma sappiamo che l’unico modo efficace per combattere il terrorismo è tagliare la testa al serpente.La vera soluzione è che siano i siriani stessi a estirpare questo cancro dalla loro società, senza affidarsi a un intervento esterno, che storicamente si è rivelato poco efficace.

Per quanto riguarda gli interventi internazionali, ormai sono due anni di quello statunitense e oltre un anno di quello russo, ma vediamo che, essenzialmente, ad essere presi di mira sono i civili. Le forze di Daesh o ISIS, che dir si voglia, vengono colpite molto più raramente, e a subirne le conseguenze sono soprattutto quegli stessi siriani che nel 2011 erano scesi in piazza chiedendo libertà e dignità e che, di fronte a questa rivendicazione sacrosanta, si sono visti rispondere con le armi.

Mazen, prima citavi la presenza di donne e bambini durante i tuoi periodi in carcere. Quanti minori c’erano nelle carceri siriane? Quanti bambini o ragazzini?

Non posso fare una stima precisa, ma posso parlare della mia esperienza personale. Dei 170 compagni di prigionia che avevo, circa una ventina erano bambini, e altrettanti adolescenti. La fascia di età predominante era quella tra i 30 e i 40 anni, mentre gli anziani erano pochi.

Le donne erano al piano di sopra. Sentivamo i loro strilli mentre venivano torturate, ma non so esattamente quante fossero. Per quanto riguarda le persone che erano prigioniere con me, alcune erano state prese semplicemente perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato, altre perché il loro nome somigliava a quello di una persona ricercata e quindi fermate a un checkpoint, finendo in carcere, o perché erano parenti di qualcuno. Poi c’erano anche attivisti, pensatori e giornalisti. C’erano persone di tanti gruppi sociali, etnici e comunitari, tra cui cristiani, drusi, curdi, oltre agli arabi sunniti, che sono la maggioranza della popolazione siriana.

Per quanto riguarda i bambini, uno l’ho visto morire davanti ai miei occhi. Era un giovane che era stato gravemente ustionato sul volto e sulla schiena. Chiaramente, senza alcun tipo di intervento medico, le ustioni si sono infettate e, nel giro di due o tre giorni, è morto. L’unico tipo di cura che avevamo a disposizione era l’utilizzo di impacchi. Usavamo la busta con cui ci portavano le patate per fargli degli impacchi, ma ovviamente non è stato sufficiente. Altri li ho visti uccidere con esecuzioni sommarie, nello stesso ospedale numero 601, quello da cui sono fuoriuscite le foto di Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura.

Mazen al-Hamada Grazie di questo racconto

Colgo l’occasione per ringraziare voi, il popolo italiano e anche le istituzioni, che ci hanno dato l’opportunità di trasmettere e raccontare il dolore siriano, di descrivere i crimini a cui abbiamo assistito in prima persona e di portare questa testimonianza alla vostra attenzione.

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