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È morto lo scrittore ungherese Imre Kertész

Si è spento all’età di 86 anni lo scrittore Imre Kertész, unico Premio Nobel ungherese per la letteratura. Il prestigioso riconoscimento gli è stato conferito nel 2002 “per una scrittura che – come si legge nella motivazione – sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbara arbitrarietà della storia”. Più precisamente il Nobel è arrivato grazie a Essere senza destino, romanzo sull’esperienza dei campi di concentramento che l’autore ha vissuto realmente quando, ebreo-ungherese, è stato deportato ad Auschwitz nel 1944, all’età di 15 anni, e poi trasferito a Buchenwald per essere liberato l’anno successivo.

Uscito nel 1975, Essere senza destino è il suo primo e più famoso romanzo ma Kertész non voleva che il suo nome, la sua figura di scrittore, fossero associati solo o soprattutto a questo testo e non al senso più ampio della sua opera complessiva che annovera diversi elaborati di grande profondità intellettuale quali Kaddish per il bambino non nato che sonda le intime lacerazioni della coscienza di chi ha vissuto l’Olocausto e i paradossi che segnano la condizione dei sopravvissuti ai lager nazisti; Storia poliziesca, un’opera che parla in modo spietato del potere e dei mezzi con i quali esso viene mantenuto, o ancora Il secolo infelice, una riflessione profonda sul Novecento e sulle tragedie che l’hanno caratterizzato.

Tornato a Budapest, sua città natale, dopo la detenzione nei campi di concentramento, Imre Kertész diventa giornalista per un quotidiano della capitale, fatto che avviene nel 1948. Solo in seguito comincia a scrivere romanzi e a tradurre opere dal tedesco. Fa parte della sua storia il rapporto controverso con il suo Paese natale, parte del quale non lo ha mai considerato ungherese. Kertész ha vissuto a lungo a Berlino e solo negli ultimi anni è tornato a Budapest ormai malato. Nella Germania ha trovato una sorta di patria adottiva e questa condizione ha forse contribuito a rafforzare il senso di estraneità concepito da molti ungheresi nei suoi confronti.

Estraneità mista a risentimento verso coloro i quali hanno recepito le sue non benevole osservazioni nei confronti dell’Ungheria come un attacco alla madrepatria. Quella dello scrittore è stata infatti una delle voci critiche verso una realtà socio-culturale, quella ungherese, che Kertész vedeva caratterizzata dall’assenza di una vera e propria identità democratica.

In un’intervista di Mariarosaria Sciglitano – la sua traduttrice in italiano – uscita sul manifesto nel 2010, lo scrittore definiva i suoi connazionali incapaci di trovare per essi una collocazione nei tempi attuali e di essere piuttosto inclini al vittimismo. Affermava che tutte le feste nazionali ungheresi ricordano le sconfitte subite in battaglie o insurrezioni. Il riferimento è alle celebrazioni dei moti risorgimentali che, secondo Kertész, non sono qualcosa di funebre; “Qui tutto è commiserazione e incapacità di riconoscere le possibilità che ci vengono date”.

Questo affermava lo scrittore sei anni fa e la sua voce critica ha accompagnato tutto il corso politico inaugurato nel 2010 dal primo ministro Viktor Orbán e dal sistema di potere che questi rappresenta. L’ultima fatica di Kertész è una sorta di diario la cui traduzione in italiano è in corso d’opera, che contiene il suo punto di vista su aspetti che caratterizzano i nostri tempi, compresa la crisi migratoria che ha messo in crisi l’Europa. La notizia della sua scomparsa, purtroppo attesa date le condizioni di salute dello scrittore, ha suscitato in Ungheria il cordoglio del mondo delle lettere che si è ritrovato nella veglia funebre organizzata dal Museo Letterario Petőfi.

Sulla scomparsa di Imre Kertész, Radio Popolare ha intervistato Mariarosaria Sciglitano, la sua traduttrice in italiano. Ascolta qui l’intervista a cura di Ira Rubini e Chawki Senouci

traduttrice nobel

Massimo Congiu è direttore dell’Osservatorio Sociale Mitteleuropeo, un’agenzia che si propone di monitorare il mondo del lavoro e degli affari sociali in Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca.

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    Massimo Congiu
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    Ottanta anni fa, dalla lotta di Liberazione, nasceva l'Unione Donne Italiane

    Nell'ottobre del 1945 nasceva l’Udi, Unione donne italiane, ora sul sito della storica associazione si legge Unione donne in Italia, perché – spiegano – anche le donne che vengono da altri paesi possono entrare nell’Udi e sentirsi unite in battaglie che dopo 80 anni non sono ancora terminate. È quella per difendere la 194 da chi in questo governo vuole limitarla, svuotandola, quella per ottenere il “bilancio di genere”, come spiega Liviana Zagagnoni, responsabile nazionale dell’Udi. Una legge di bilancio pensata anche per le donne, con investimenti per gli asili nido e per i congedi parentali e poi quella per avere una vera parità di genere, nei salari, ma anche nelle relazioni, per una società senza più femminicidi. Una storia iniziata ottanta anni fa da ragazze e donne che fecero la Resistenza e che quella partecipazione attiva nella lotta di Liberazione volevano continuarla per ottenere dei diritti, a cominciare da quello del voto. Lo ricorda Luciana Romoli, staffetta partigiana di 95 anni, una delle fondatrici dell'Udi, incontrata al convegno che alla Camera dei deputati celebra l’anniversario e che ci racconta la sua storia e l’ostilità che l'Udi trovò negli uomini, anche del partito comunista. Le interviste di Anna Bredice.

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    1980, crocevia dello stragismo in Italia: dalla stazione di Bologna agli omicidi Bachelet, Costa, Galli, Amato e Tobagi. E poi l'assassinio di Piersanti Mattarella e la strage di Ustica. Gli interessi dei poteri criminali (da cosa nostra all’eversione nera a pezzi “infedeli” dei servizi segreti, i poteri occulti), a volte convergenti o soltanto paralleli. Dell’omicidio Mattarella restano ancora i segni di quella pista nera il giudice Falcone riconobbe e seguì nella seconda metà degli anni ‘80. Pubblica ha ospitato la giornalista e saggista Stefania Limiti e l’ex direttore dell’istituto “Ferruccio Parri” Emilia-Romagna Luca Alessandrini.

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    Sta diventando impossibile lavorare i propri campi per i contadini della Cisgiordania, soprattutto tra Hebron e Nablus, circondate da nuovi avamposti dei coloni. Le aggressioni si moltiplicano insieme alle minacce e allora diversi gruppi di contadini solidali si sono mossi per andare ad aiutare gli olivicoltori palestinesi. Questo è il racconto di Francesco Franchi della comunità agricola Mondeggi Bene Comune di Firenze, che ci descrive la sensazione di essere circondati, ma anche l’importanza della raccolta dell’olive, dell’importanza dell’olio e del potersi aiutare tra contadini, una pratica che contraddistingue la cultura dei campi mediterranea. “Per noi agricoltori è insopportabile che un momento comunitario e collettivo come la raccolta, non possa avvenire in sicurezza”. L'intervista di Claudio Jampaglia e Cinzia Poli.

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