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Il Recovery di Draghi: meno coesione e lavoro, più fondi per le aziende

Recovery Plan Draghi

Il Recovery Plan è sul tavolo di Mario Draghi, rispetto a quello di Conte si passa da 210 miliardi in tutto, a 220, al netto dei diversi modi di averli suddivisi, i capitoli rimangono più o meno bilanciati, ma alcuni primi dati segnano un cambiamento del senso del piano: meno coesione e più opere.

Nel Recovery Plan sul tavolo di Palazzo Chigi le vere sconfitte sarebbero le politiche per l’inclusione sociale – 5 miliardi. E in particolare sarebbero dimezzate quelle per il lavoro con la scomparsa del sostegno alle assunzioni di giovani e donne.

La coesione territoriale è dispersa e complessivamente ridotta, azzerata quella promossa dal basso. La salute rimarrebbe la cenerentola del piano – questo si sapeva già – ma Speranza avrebbe almeno mantenuto i suoi 7 miliardi per la medicina di territorio.

Il resto delle cifre del Recovery Plan non è ancora noto, ma dalle prime indiscrezioni ci sarebbero voci in crescita solo nei capitoli opere: dalla filiera dell’idrogeno, alle reti energetiche, alle piccole e medie imprese del turismo. Mentre si ridurrebbero i fondi alla cultura. Confermata l’impostazione tutta ad alta velocità delle infrastrutture con l’intero pacchetto che era di quasi 30 miliardi dedicato a questa voce.

Chi si aspettava transizioni verso le merci su rotaia e i sistemi regionali rimarrà deluso. Morale meno sociale e una lettura della transizione ecologica molto aziendale. Ed è il risultato delle destre al governo e di un Presidente del Consiglio senza una visione politica. Il 23 aprile conosceremo l’intero piano che andrà alle camere nei giorni successivi. Ma la scoglio più duro non saranno di certo le opposizioni, piuttosto la Commissione europea che ha già fatto trapelare i suoi dubbi che sono sempre gli stessi. Il primo: troppe riforme settoriali e nessuna macro. Dove sono le riforme della giustizia, del fisco e della pubblica amministrazione? Viene detto a ogni governo e non si tratta di capitoli del piano, ma sono il quadro che chiede l’Europa: soldi per cambiare il paese e così non si cambia.

Ancora più preoccupata l’Europa è della governance, come all’epoca di Conte: chi implementa e assicura che i fondi europei vengano spesi bene e subito? Non si sa. Su questo Draghi non sembra aver fatto passi avanti. Anzi, sembra ancora fermo al Conte bis. Saranno gli scogli più seri da affrontare. Dove la credibilità internazionale dell’ex banchiere centrale europeo potrebbe non bastare.

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    Claudio Jampaglia
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