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Bielorussia, cosa significa vivere nell’ultima dittatura d’Europa

Lukashenko

Cosa significa vivere “nell’ultima dittatura d’Europa”? E cosa significa raccontare la verità, fare il giornalista, nell’ultima dittatura d’Europa? L’arresto di Roman Protasevich, il giornalista d’opposizione bielorusso, è solo l’ultimo atto del regime autoritario di Lukashenko che – al potere dal 1994 – mira a distruggere ogni voce dissidente. Solo qualche giorno fa, un altro evento aveva riportato la Bielorussia sulle pagine dei giornali internazionali, la chiusura del sito d’informazione indipendente Tut.by e ilconseguente arresto di 14 persone. Parlando con Barys Haretski, direttore dell’Associazione Bielorussa dei Giornalisti, abbiamo cercato di capire che tipo di lavoro è quello del giornalista in un paese che – nel cuore dell’Europa – si posiziona al 158 posto su 180 nel mondo per la libertà di stampa.

Essere giornalisti in Bielorussia richiede innanzitutto un grande coraggio. Devi essere pronto a essere arrestato in qualunque momento. Per esempio, prima di questo nostro incontro, è arrivata la troupe della Belsat, la testata bielorussa con base in Polonia. Prima di intervistarmi erano stati al tribunale dove c’era il processo ad un collega, ma sono dovuti scappare dalla polizia che li voleva arrestare. Questa è la quotidianità di un giornalista in Bielorussia. Molti hanno lasciato il paese dopo l’inizio delle proteste, ma molti giovani sono arrivati, quindi c’è stato un ricambio. Perché questo per il paese è un momento storico, stiamo vivendo situazioni che non si erano mai verificate negli ultimi 25 anni. Quindi c’è anche l’interesse e anche se è pericoloso fare il giornalista, lo si fa comunque, perché il momento è singolare. Chi è rimasto, anche se si rende conto del pericolo che vive ogni giorno, è un fatalista, in un certo senso. Sa che non sta facendo niente di male, non sta trasgredendo le leggi e quindi continua a fare il suo mestiere anche se si rende conto che in ogni momento può essere arrestato, essere portato in carcere dove potrebbe rimanere anche tanti anni. Però nella situazione odierna i giornalisti non possono restare in disparte e isolarsi rispetto a quello che succede nel paese.
A settembre sui canali filo-governativi era uscito un documentario che parlava della quotidianità dei giornalisti del regime, che si lamentavano del fatto che lavorando nei media bielorussi ufficiali non sanno mai come va a finire la loro giornata. Allo stesso tempo i giornalisti bielorussi avevano decine di colleghi in carcere. Questa è la realtà bielorussa. È così, sembra un film.

Ad oggi, sono 34 i giornalisti Bielorussi che si trovano in carcere. 11 sono i giornalisti di Tut.by, che sono stati arrestati dopo un raid della polizia nella redazione e nelle loro case private. Il dipartimento di controllo finanziario ha aperto un’inchiesta nei confronti di Tut.by per evasione fiscale. Un’accusa utilizzata più volte dal regime di Lukashenko contro i media, perché rispetto ad un’accusa di diffamazione, l’evasione è in grado di distruggere letteralmente una testata. Un attacco di questo tipo, farebbe pensare a Tut.by come ad una testata fortemente antigovernativa e apertamente critica, ma per essere presi di mira, in Bielorussia, non è necessario fare qualcosa di particolarmente critico, basta dire la verità.

Non solo Tut.by ma tutti i media indipendenti bielorussi non criticano mai apertamente la dittatura. Innanzitutto, perché c’è l’etica giornalistica – la critica verso il regime può essere avanzata solo dagli esperti, mentre i media riportano la situazione nel modo più imparziale e veritiero possibile – ma anche perché tutti si rendono conto che appena si inizia a criticare apertamente il regime, la testata viene subito chiusa. Quindi tutte le testate indipendenti non criticano apertamente il regime, ma il problema è che ora quello che succede in Bielorussia è tale da renderti pericoloso per il regime anche solo se ne parli. Quando le persone vengono picchiate, torturate o uccise dalle forze dell’ordine, nel momento in cui tu ne parli come giornalista, per il regime automaticamente ti trasformi in un oppositore politico. Quindi i media indipendenti sono antigovernativi semplicemente per il fatto che raccontano la verità.

Cosa ha portato alla nascita dell’Associazione Bielorussa dei Giornalisti?

L’Associazione Bielorussa dei Giornalisti è stata fondata 25 anni fa, proprio perché Lukashenko aveva cominciato a fare pressioni sui media indipendenti. Lukashenko è al potere dal 1994, quasi 27 anni e la nostra associazione esiste da 25. Lo scopo è proprio quello di tutelare i diritti dei giornalisti e la libertà di stampa e di espressione. È il frutto della situazione attuale in Bielorussia. Se non ce ne fosse bisogno, non sarebbe mai nata. Ultimamente l’associazione ha fatto tanti appelli congiunti con la federazione giornalistica europea e internazionale, ma il problema è che nelle condizioni attuali, i giornalisti sono i nemici del regime e sono l’obiettivo da prendere e distruggere. Questa è la verità. E l’associazione dei giornalisti bielorussi cerca di difendere i diritti e la libertà di stampa con i mezzi che ha a disposizione, però è chiaro che la dittatura ha la meglio, perché ha il potere. Però noi facciamo quello che possiamo.

Vivere nell’ultima dittatura d’Europa, quindi, significa anche dover lottare per un’informazione onesta e coraggiosa. Un valore fondamentale in una società democratica e per cui la popolazione Bielorussa è disposta a combattere. Sentiamo ancora Barys Haretski.

Si può parlare di due aspetti nell’atteggiamento che la società ha nei confronti di quello che sta succedendo ai media indipendenti. Il primo è la solidarietà e il sostegno delle persone che si sono sempre dimostrate molto collaborative con i giornalisti indipendenti. Per esempio, quando dovevano scappare dalle forze dell’ordine perché erano presi di mira dalla polizia, gli abitanti dei palazzi vicino aprivano le porte delle loro case per aiutarli a nascondersi. L’hanno sempre fatto con i giornalisti. Quando è diventato pericoloso fare reportage direttamente dalla strada, la gente faceva entrare in casa i giornalisti così che potessero osservare quello che succedeva, e fare le dirette, condividendo sempre con i reporter anche il Wi-Fi. Oppure, quando avevano bisogno di scaldarsi, la gente li faceva entrare in casa propria. Poi ogni volta che succede qualcosa da qualche parte la gente lo documenta e manda il materiale alle testate indipendenti. C’è una grande collaborazione. L’altro aspetto importante è la situazione attuale della società. Da un lato abbiamo paura e la gente è giù di morale perché le repressioni stanno andando avanti, praticamente è un massacro. Molte persone stanno lasciando il paese e non si vede la luce in fondo al tunnel. La gente, però, è anche molto arrabbiata, proprio perché le autorità stanno massacrando chiunque non condivida la politica ufficiale. La tendenza generale, dunque, è quella di sostenere i media indipendenti e ogni cambiamento democratico nel paese. Le elezioni del 9 agosto, e gli eventi che seguirono, ne sono una dimostrazione eloquente.

FOTO| Alexander Lukashenko

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    Martina Stefanoni
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    Le comedians contro la violenza sulle donne al Teatro Lirico di Milano

    Oggi a Cult Mary Sarnataro ci ha parlato di “Zitte mai!”, la serata speciale in scena al teatro Lirico di Milano, che un gruppo di comedians, capitanate da Deborah Villa, dedica all'associazione Cerchi nell'Acqua, che da anni è vicina alle donne vittime di violenza. A partire dalla libertà di esprimersi, la prima che viene a mancare quando una relazione diventa prevaricante, l'appuntamento sarà l'occasione per riflettere sulla violenza sulle donne, usando lo strumento della comicità. L’intervista di Ira Rubini.

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