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Lo scontro finale nel Pd

Nel Pd è in atto uno scontro finale. La posta va oltre le alleanze in vista delle elezioni politiche. Riguarda la cultura stessa del partito, una volta si sarebbe detto l’ideologia.Nel Pd continuano a esserci due corpi separati, come prima della scissione.Renzi e i suoi da una parte, il resto del partito dall’altra.Usciti D’Alema, Bersani e la Ditta, lo scontro adesso è tra Renzi e gli altri fondatori. Veltroni, Franceschini, Romano Prodi. Quel che resta della cultura socialdemocratica e della componente cattolico sociale. Si scontrano con Renzi sul centrosinistra, ma gli stanno dicendo che ha stravolto l’essenza del Pd. Il ministro della Cultura lo afferma con chiarezza: “stiamo perdendo contatto coi ceti sociali che sono da sempre la base del nostro consenso”. Veltroni aveva parlato di un Pd senza più una identità. Renzi invece sta approfittando della sconfitta alle amministrative per allontanarsi ancora di più dal centrosinistra e la ragione è speculare: dare l’ultimo strappo alla cultura politica del partito, lavorando a una forza politica liberale che abbandoni al proprio destino la vecchia tradizione. Si spiega probabilmente così la ostentata indifferenza alle sconfitte nelle città storiche della sinistra, da Genova a Sesto San Giovanni. Renzi insegue il sogno di un macronismo in versione italiana, partendo da una struttura che già controlla, il Pd, invece che da zero come il neo presidente francese. Quanti consensi possa ottenere, è la vera incognita. In Italia, come in Francia, la destra è ormai salvinizzata nei temi prima ancora che nelle sigle e nelle formule. La sinistra è ai minimi termini. Ma le analogie finiscono qui. Il centro, per antica consuetudine, è cattolico, moderato, diviso tra anima conservatrice e anima sociale.E i sentimenti di insoddisfazione, di rabbia, di rifiuto della politica sono molto profondi e Renzi è un leader divisivo, catalizzatore di profonde antipatie. Fattori che rendono il calcolo di Renzi al limite dell’azzardo.

  • Autore articolo
    Luigi Ambrosio
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    «Il femminicidio non è un atto privato, ma l’espressione di una violenza e di un abuso di potere sostenuto dalla struttura patriarcale delle istituzioni e di una cultura che vede l’egemonia maschile come “normale”, statisticamente e socialmente, in moltissimi ambiti». Fine della citazione tratta da “Perchè contare i femminicidi è un atto politico”, un libro importantissimo scritto da Donata Columbro (Feltrinelli, 2025). Pubblica ha ospitato oggi l’autrice che ci ha raccontato cosa significa contare i femminicidi, non è «un esercizio di precisione statistica», sostiene Columbro , ma «un problema sistemico, che riguarda ogni strato sociale, ogni famiglia, ogni scuola, ogni quartiere, ogni nazionalità, ogni tipo di professione». Ospite di Pubblica anche Cristina Carelli, presidente di D.i.Re (Donne in rete contro la violenza). «Anche noi pensiamo che contare i femminicidi – racconta Carelli – sia fondamentale per fare emergere il fenomeno per quello che è. E anche per analizzare ciò che è avvenuto prima. Bisogna lavorare sulla prevenzione. Noi abbiamo bisogno di capire cosa funziona e cosa non funziona nel cosiddetto sistema antiviolenza istituzionale».

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    Secondo Mario Del Pero, americanista e docente di Sciences Politiques a Parigi, Trump vuole sicuramente disimpegnare gli Usa, e trasferire i costi del sostegno all'Ucraina sull'Europa, e poi arrivare a un accordo con la Russia, anche cedendo territori, con l’obiettivo ultimo di accordi commerciali e minerari. Le contraddizioni nella politica USA derivano da quelle tra sovranità sbandierata e affari del Presidente. L'intervista di Cinzia Poli, Emanuele Valenti e Claudio Jampaglia.

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