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La violenza contro Silvia Romano

Silvia Romano

Uno legge di Nico Basso, consigliere comunale di Asolo, provincia di Treviso, già della Lega e oggi indipendentista veneto, che scrive su Facebook “impiccatela” riferito a Silvia Romano, e potrebbe essere tentato di passare oltre con una alzata di spalle: “Ma chi se ne frega del consigliere venetista di Asolo, provincia di Treviso!”.

Ma gli insulti, le aggressioni verbali a Silvia Romano sono tante, sui social. Troppe. E il pericolo è considerato reale.

Le auto delle forze di Polizia tengono d’occhio casa sua a Milano. L’antiterrorismo ha aperto una inchiesta con l’ipotesi di minacce aggravate.

C’è qualcosa di già visto, in questa vicenda: la guerra di parole violente che si scatena ogni volta che una donna viene rapita in circostanze simili e poi liberata. Da “quanto ci è costato”, a “poteva aiutare le persone qui”, da “quanto ci odia” a “quanto è amica dei nostri nemici”. Pensieri che sottendono una concezione proprietaria della donna. E quando il controllo e il possesso vengono messi in discussione, si scatena la rabbia.

Questa volta poi, Silvia Romano ha compiuto un gesto che è troppo, per i tanti italiani che pensano con quegli schemi mentali: si è presentata sorridente, vestita con gli abiti del nemico, annunciando di avere abbracciato la religione del nemico.

A chi urla “Europa cristiana mai musulmana”, a chi fa politica brandendo il crocefisso si potrebbe far notare che la manipolazione della fede ai fini del potere politico è esattamente quello che fanno i gruppi della Jihad nonché lo scopo perseguito da tutti i fanatismi religiosi nel mondo.

Certo, in Italia non c’è la guerra. Non c’è la violenza in nome della religione. Non scorre il sangue. E noi ci sentiamo così sicuri dietro le nostre tastiere. Scriviamo quello che vogliamo, al limite cancelliamo. Eppure basterebbe volgere lo sguardo appena un po’ più a est di Asolo, Treviso. Giusto oltre i confini nazionali. E ricordare quanto sia costata in termini di distruzione e morte l’ultima guerra combattuta in Europa in nome della religione e dell’etno-nazionalismo. E quanto poco tempo sia passato. E quanto vicino a noi sia accaduto. E quanto uguali a noi fossero chi quella guerra l’ha combattuta e chi ne ha pagato il prezzo.

  • Autore articolo
    Luigi Ambrosio
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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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