L’ultimo colpo di scena, lunedì sera intorno alle 22, è arrivato con la decisione di stralciare dalla manovra cinque norme di dubbia costituzionalità. Due in particolare: una che riduceva i tempi delle cosiddette porte girevoli, ovvero del passaggio di un soggetto da un ruolo apicale pubblico a uno privato nel medesimo settore. Pensiamo, per fare un esempio del tutto casuale, a un rappresentante dell’industria delle armi che finisce a fare il ministro della Difesa. Soprattutto la norma detta Salva imprese, che esentava gli imprenditori dal pagare gli arretrati ai lavoratori riconosciuti come sottopagati dalle sentenze: una norma fatta non solo come ennesimo favore alle imprese, ma per fermare i magistrati che hanno dichiarato diversi contratti, pirata ma anche firmati dai confederali come quelli dei servizi fiduciari, incostituzionali perché con minimi sotto la soglia di povertà, in violazione dell’articolo 36 della Costituzione sul salario dignitoso.
Ecco, l’emendamento che la destra aveva già provato a infilare e poi ritirato quest’estate nel decreto Ilva era tornato in manovra. Chiaro che si toccasse apertamente un principio costituzionale, per di più fatto applicare dai magistrati. Più volte esponenti della destra si erano opposti a quella ritenuta un’invasione della libertà di impresa, evidentemente anche di sfruttare, da parte della magistratura. Così, a tarda sera, è arrivato l’intervento degli uffici tecnici del Quirinale, che ha cassato le norme. E ce ne sono altre di dubbia legittimità, espressa dal Colle, che probabilmente finiranno oggetto di contenziosi. La più rilevante è il regalo ai fondi finanziari: la retroattività del silenzio-assenso del TFR, che iscrive in automatico i nuovi assunti alla previdenza privata.
Non è prudenza, come l’ha definita il ministro Giorgetti. La legge di Bilancio approvata al Senato martedì nasce innanzitutto da una scelta politica: rientrare dal deficit per accedere l’anno prossimo ai fondi per la spesa militare. Il governo ha posto le basi per investire ingenti parti di bilancio, e di sviluppo industriale, nel settore bellico, con buona pace dei falsi proclami leghisti. Per farlo sceglie di sacrificare scuola, università, istruzione e trasporti, con ingenti tagli che peseranno sulla vita reale delle persone. All’austerità del riarmo viene sacrificato lo sviluppo del Paese, visto che la manovra non porterà ad alcuna crescita, secondo gli stessi dati del governo. È fatta di bonus più o meno piccoli, che ruotano attorno a una rimodulazione dell’Irpef che sarà più conveniente per chi più guadagna, ma ininfluente per il ceto medio e i lavoratori, che con la detassazione degli aumenti contrattuali porterà in tasca, letteralmente, pochi euro al mese. L’altro ramo è arrivato sotto Natale, con la cambiale pagata alle imprese che portano a casa ogni loro richiesta, con fondi e agevolazioni a pioggia prive di qualsiasi orientamento di politica industriale, che si tradurranno in taglio dei costi e incremento dei profitti. Per farlo si è scelto di colpire duramente i lavoratori, allungando ancora la vita lavorativa e chiudendo a ogni possibilità di uscita anticipata, in particolare per i più deboli, precoci e usuranti, e tagliando addirittura l’assegno di inclusione. Prendere ai poveri per dare ai ricchi. Dal 2026 il Pnrr non c’è più. Avere conti in ordine e investire in armi non basterà in un quadro in cui crescono i poveri, aumentano solo i lavoratori anziani, il Paese perde pezzi di industria, i salari stentano e i consumi sono deboli. Qualcuno l’ha definita “gestione del declino”, nel quadro di un’economia bellica che contrassegnerà il prossimo bilancio, dove il governo si terrà comunque dei margini – arrivano le elezioni – per qualche regalo elettorale, vedremo a chi, con vincoli che però saranno stringenti.

