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La crisi di governo e le classi subalterne

La crisi di governo in atto è insieme grottesca e divertente, losca e limpida, strafogata e austera, grave ma non seria (Flaiano), globale fino a Trump, locale fino alla stanza di Di Maio, come un uomo che scivolato un momento su una buccia di banana, annaspi roteando braccia e gambe senza riuscire a fermarsi per rimettersi in equilibrio. Già ma quale equilibrio? Quello verticale, oppure orizzontale, o a 45 gradi, statico o dinamico, e in quanti sono a cercarlo questo equilibrio. O equilibri, ché più d’uno è possibile. Eppure l’uomo aveva un  solido bastone a sorreggerlo che è venuto meno, e ora incespica a ogni passo. E gli uomini sono più d’uno, ciascuno col suo passo, dovendo accordarsi il che non è facile quando si cammini in direzioni diverse.

Così il moltiplicarsi di geometrie variabili e di dinamiche zigzaganti rende la situazione confusa, invocando più o meno tutti una forza superiore che metta ordine, senza sapere quale ordine e quale forza. Le elezioni anticipate, la suprema parola di Mattarella, L’Unione Europea, e quant’altro fino addirittura all’intervento della Vergine Maria. E’ come se tutti i nodi fossero venuti al pettine insieme e nello stesso tempo; quindi scioglierli diventa difficile assai, ma pure tagliarli appare impresa non da poco.

Però un dato è chiaro: si tratta di una crisi che si svolge tra i rappresentanti delle classi dominanti. Il che non significa che i suoi esiti siano tutti indifferenti.  Come è ben noto non tutte le soluzioni alle crisi capitalistiche si equivalgono. Con un esempio classico: alla grande crisi del ’29 negli USA si rispose col New Deal di Roosvelt, in Germania col nazismo di Hitler, e c’è una bella differenza, tanto che per sciogliere la contraddizione si dovette arrivare a una guerra mondiale, la seconda. Nel nostro piccolo italico mondo, una cosa è la vittoria del fascioleghismo salviniano autoritario e razzista, un’altra un governo M5S-PD, non proprio uno splendore ma meglio, e una democrazia liberale.

Qui già si misura il peso dell’assenza nel panorama politico di una forza rappresentativa delle classi subalterne, dei loro interessi, bisogni, desideri. Si tratta di una limitazione della democrazia non secondaria, che investe l’intero assetto istituzionale e, almeno in Italia, Costituzionale, essendo la nostra una Repubblica fondata sul lavoro. Ma se il lavoro subalterno – la massima parte del lavoro – non è rappresentato, l’affermazione costituzionale è monca, quindi destituita di reale forza costituente. Per cui nel misurare la crisi, bisognerebbe anche misurare se e come sia possibile, dopo la fine dei partiti socialista e comunista, costruire una forza politica capace di rappresentare le classi subalterne, e di definire un percorso per una presa di potere delle stesse, sempre parziale in democrazia. Ma consistente. Non è questione di numeri ma di strategia.

Tutti i gruppi sorti, evaporati, risorti, sfumati, attestati sul 2%, non hanno come limite questa piccola quantità di voti, bensì di essersi sempre presentati per un verso come i custodi di una qualche ortodossia “di sinistra” e per l’altro come gli integerrimi oppositori del partito più consistente, erede alla lontana del PCI, PdS, DS fino all’attuale PD. Mentre invece la questione sta tutta altrove, nel cuore della composizione di classe.

Il riformismo e/o l’antagonismo e/o la rivoluzione sono parole vuote. Parola piena è: rappresentanza di classe, delle classi subalterne. Ripeto: dei loro interessi, bisogni e desideri. In funzione del potere. Di un potere non totalitario degli sfruttati e poveri del mondo.

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