Approfondimenti

“Io, aggredita perché porto il velo”

Houda Latrech ha 20 anni, vive in provincia di Varese e studia Giurisprudenza a Milano. Qualche giorno fa, mentre era in metropolitana, diretta all’Università, un uomo vede quella ragazza con il velo e la aggredisce, la spintona, la minaccia: “dovete morire tutti”. 

In questo post, pubblicato su Facebook e che Houda ci ha dato il permesso di pubblicare qui, racconta la paura di quei momenti ma anche la forza che gli hanno dato i passeggeri che l’hanno difesa e sostenuta

6 Aprile 2018, ore 8.17 metro linea 2, fermata di Milano Porta Garibaldi, interconnessione con metropolitana numero 5, e con treni S3, S4, S5, treno diretto ad Abbiate Grasso, ferma in tutte le stazioni.Ore 8.17, sono agitata, stanca e nervosa, svegliarsi alle 6 del mattino per andare in università, passare più di un’ora in un treno affollato, in ritardo. Ho lezione alle 8.30, accelero i passi, cerco di salire sul primo convoglio che passa per arrivare in tempo. Odio arrivare in ritardo. Ore 8.17, qualcuno mi spinge, mi si gela il sangue nelle vene, mentre temo di finire contro il treno in movimento, riprendendo l’equilibrio mi giro a guardare chi abbia potuto fare questo, un uomo mi osserva con uno sguardo di folle lucidità, mi addita, e comincia a inveire contro di me. Tremo di terrore, non so cosa fare, il panico sale inaspettato e io che sono sempre forte, sempre sicura di me stessa, io che so resistere alla tempesta mi trovo in un attimo travolta da essa. Fai qualcosa, fai qualcosa mi ripetevo incessantemente, senza riuscire a muovere un muscolo. Fai qualcosa, mentre sentivo le ossa gelare e paralizzarsi, un dolore salire dal profondo e infiammare tutti i miei capillari. Ore 8.17, cerco di non piangere, cerco di coprirmi le orecchie, di confondermi con la massa, mentre mi investe la bufera. Ore 8.17, fisso il vuoto cercando di allontanarmi dall’uomo, che non si ferma un attimo, continua a urlare, alzare le mani, mentre frasi sconnesse continuano a fuoriuscire dalla sua bocca, mi intima di tornare a casa, mi accusa di essere un’assassina, mi accusa di violenza, mi minaccia, cerca di raggiungermi mentre mi faccio più piccola pur essendo appariscente nel mio metro e settanta. Ore 8.17 sento un nodo alla gola formarsi e stringere sempre di più, io che parlo sempre senza freno, non ho più la capacità di esprimere nessun verso, investita da quella violenza inaudita, da quella rabbia cieca. Ore 8.17 cerco di essere razionale, non mi succederà niente, sono circondata da persone, se mi allontano piano dalla porta della metro dove mi continua a spingere, se mi posiziono tra le altre persone, se mi faccio proteggere, se scompaio. Non riesco più a trattenermi, ma non gli darò la soddisfazione di vedermi piangere, lo so, in fondo al mio cuore, so che non cederò. E così sorrido, gli sorrido, lo guardo negli occhi e sorrido. Il mio sorriso sembra scatenare la solidarietà delle persone che ho accanto, l’uomo davanti a me mi dice di ignorarlo, si sente in dovere di scusarsi, mi dice che anche noi italiani eravamo discriminati, che in America ci chiamano mafiosi, che la ruota gira per tutti. Ma non voglio essere un raggio di questa ruota, lo ringrazio di cuore, gli stringo la mano, mentre le lacrime cominciano a scendere, calde sulle mie guance, deve scendere, si scusa ancora un’altra volta, e io perdo la mia barriera, l’uomo è davanti a me direttamente, senza nessuna protezione, avanza minacciosamente, il panico si impossessa del mio corpo, raggela tutte le mie vene, mi farà del male, le sue parole sono sempre più minacciose, dovete morire tutti, dice e sembra pronto ad attuare il suo piano. Piango, ormai e retrocedo, ferita nel profondo, una ferita che ormai sarà indelebile, inguaribile. Non riesco a rispondere, a contrattaccare, e questo mi fa ancora più male. Cerco sostegno, mentre cedo, retrocedo, torno indietro, senza meta. Un ragazzo mi tocca la spalla, penso sia involontario, lo guardo e mi dice di non mollare, mi dice di mettermi davanti a lui, una ragazza si alza, si avvicina a me, mi abbraccia, piango mentre la abbraccio, mentre mi incoraggia, si scusa anche lei e le dico che non lo deve fare, la ringrazio, li ringrazio, in un attimo, tutti mi sostengono, l’uomo si sente escluso da questa manifestazione di sostegno, sbraita ancora di più, ancora più forte, ma io non ho più paura, sorrido ormai, tra le lacrime, sorrido perché sono a casa, sorrido perché sono di nuovo me stessa, sono di nuovo nel mio paese, sono di nuovo tra la mia gente. L’uomo scende, incollerito, scende avvolto dalla sua rabbia, mentre io sono avvolta solo dall’affetto di chi ha saputo aiutarmi nella mia confusione, chi ha saputo prendermi per mano, proteggermi, chi ha saputo accompagnarmi, abbracciarmi, chi ha voluto sacrificare il suo tempo per aiutarmi a conseguire giustizia, chi si è voluto scusare, pur non avendo alcuna colpa, chi mi ha ribadito, che non sono tutti così, anche se non ce n’era bisogno, anche se io lo so, anche se non è necessario ribadirlo. Perciò oggi scrivo, tremando, ma scrivo, e non scrivo per lamentarmi, non scrivo per polemizzare, non è un J’accuse quello che ho intenzione di fare, ma un ringraziamento. Perché non sono una vittima e non cadrò nel vittimismo, non cederò all’odio e alla paura, perché è questo che ci vogliono indurre a fare. Oggi voglio ringraziare Vanessa, la ragazza che mi ha abbracciata, che mi ha aiutata a scendere dalla metro e mi voleva accompagnare a porre denuncia. Oggi ringrazio il ragazzo che si è messo tra me e l’uomo e a cui non ho chiesto il nome. Oggi ringrazio Alessandra per essere venuta a prendermi alla fermata, per avermi abbracciata in mezzo al via vai incessante, incurante, per aver saputo fermare il tempo. Oggi ringrazio Edoardo, ringrazio Siria, Jlenia, Valeria, ringrazio tutte le persone che mi sono state a fianco e che mi hanno mostrato sostegno.Oggi sorrido ricordando che un uomo mi abbia voluto fare del male per aver indossato il velo rosa confetto, come piace tanto a Rossana, oggi sorrido anche se provo dolore, perché i fiori migliori sono quelli per cui si sacrifica più energia, oggi continuo a germogliare perché non vivo di rabbia, non mi nutro di rancore, oggi voglio dire a quell’uomo che lo perdono anche se mi ha fatto male, anche se ha aperto ferite inguaribili e ha minacciato la mia serenità e la mia quiete. Oggi che ho scoperto quanto possa ferire la violenza verbale, spesso più di quella fisica, oggi che ho provato sulla mia pelle, ancora una volta, ma in maniera più grave, il frutto di chi semina odio e violenza, oggi che so che le parole, le mie alleate, possono colpire come pugnali e ferire come pallottole, più delle spinte, più degli sputi. Oggi chiedo scusa a mia madre per averla chiamata in lacrime, oggi chiedo perdono a mia sorella Aya per le sue di lacrime, a mio padre per essersi sentito impotente non potendomi proteggere, oggi chiedo loro di non avere paura, di non avere paura perché ci sarà sempre chi mi aiuterà, perché oggi so che il bene ha vinto, ancora una volta sull’odio.E quindi, oggi so che finché ci saranno più persone da ringraziare che da incolpare, più persone a cui essere riconoscenti che persone da accusare, oggi so che andrà tutto bene, oggi so di essere ancora a casa.

#stophatecrimes

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    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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