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Il caso Italpizza: quando a pagare è chi si schiera per il lavoro

Dove invece chi lavora prova a ribellarsi a forme di sfruttamento, arriva la mannaia giudiziaria: 66 persone tra lavoratori, soprattutto stranieri, sindacalisti e sostenitori sono stati rinviati a giudizio dal tribunale di Modena per la vertenza Italpizza, colosso dei surgelati del modenese che esporta in tutto il mondo, accusato dal sindacato di essere cresciuto proprio grazie all’uso disinvolto di cooperative, lavoro precario, bassi salari.
Il rinvio a giudizio si accompagna ad una decisione senza precedenti: Italpizza è stata riconosciuta parte civile, ed il sindacato di base SiCobas responsabile civile: in caso di condanna al processo che inizierà a febbraio, il sindacato dovrà risarcire l’azienda che ha già chiesto 500 mila euro, senza però documentare i danni. Se il sindacato non potesse pagare, l’azienda potrà rivalersi sulle persone condannate. E non è l’unico caso nel cuore del sistema agroalimentare dell’Emilia Romagna, dove sono centinaia i lavoratori coinvolti in vicende giudiziarie per le lotte sindacali.

Mesi davanti ai cancelli, picchetti, cortei, cariche della polizia,che hanno portato anche ad internalizzazioni e miglioramenti retributivi. Ma anche una pioggia di denunce, tutti per piccoli fatti totalmente estromessi dal contesto in cui accadevano, ovvero quella di una durissima lotta sindacale. Ci sono insulti, spintoni, trasformati in reati fino all’obbrobrio giudiziario di richiamare la responsabilità civile del sindacato per aver danneggiato l’azienda, che mette in discussione, ancora, la normale azione sindacale. Non è un caso che succeda qui, nel cuore del distretto agroalimentare modenese, considerato un modello che però vive, appunto, di bassi salari, cooperative più o meno fittizie, precariato.
E tratta cosi chi si ribella, in una commistione tra potere d’impresa, politico, e secondo i sindacati anche giudiziario. Italpizza non è appunto un nome qualsiasi: finanzia e fa bella posa come sponsor delle feste del PD. E non è un caso che avvenga in Emilia-Romagna, regione teatro di alcuni dei più grotteschi casi di azione giudiziaria anti-sindacale che prende di mira i sindacati conflittuali: Come le accuse di estorsione verso le aziende al SiCobas di Piacenza nella logistica, dell’analoga vicenda di 4 sindacalisti SiCobas a processo a Bologna denunciati da un imprenditore in carcere per caporalato, o del caso dell’azienda Alcaruno, appartenente alla famiglia di Sante Levoni*, che cercò di incastrare il portavoce SiCobas Aldo Milani, in arresto fino all’emersione della montatura. Si calcola che, negli ultimi anni, oltre 500 tra operai e sindacalisti siano coinvolti in vicende giudiziarie per lotte sindacali in varie aziende. Senza una riga di solidarietà o attenzione della politica di quello che fu il, forse, “Modello” Emiliano, i cui attuali vertici, Bonaccini e Schlein oggi si candidano a rilanciare il centrosinistra.

* In una precedente versione dell’articolo, era stata indicata erroneamente la definizione “salumificio Levoni”, generando un possibile equivoco. I titolari e gli amministratori dell’azienda produttrice di salumi Levoni S.p.A di Castellucchio (Mantova), non sono in alcun modo coinvolti nella vicenda citata, da cui sono totalmente estranei. Ce ne scusiamo con i diretti interessati.

  • Autore articolo
    Massimo Alberti
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    Legge sul consenso, il governo non può tornare indietro

    La legge sul consenso si ferma al Senato perché la presidente della Commissione Giustizia Giulia Buongiorno vuole correggerla, ma la Lega esprime anche dubbi generali sulla necessità di una legge che definisca il consenso. Secondo Alessandra Maiorino, vice-capogruppo M5S Senato e Coordinatrice Comitato Politiche di Genere e Diritti Civili: “Da noi al Senato il provvedimento è arrivato tardi, da una parte c’è una questione strumentale per cui la Lega vuole più tempo, dall’altra parte c’è una questione reale, vogliamo leggere e approfondire il testo, quindi non trovo lunare la richiesta di prendere più tempo”. Insomma l’accordo c’è per approvare la legge. “L’importante è che il 609 bis che punisce la violenza sessuale agita finora con violenza, minaccia o abuso di potere, sia adegui a quello che dice la giurisprudenza: non servono il sangue, i lividi, le botte o le minacce perché ci sia violenza sessuale, basta che quell’atto sia stato compiuto senza il consenso della donna”. L'intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

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