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Due anni dalla strage di Prato: la testimonianza

Dormivano nell’azienda in cui lavoravano. Morirono di domenica mattina, quando avrebbero dovuto essere a casa. Il 1° dicembre di due anni fa sette operai cinesi rimasero uccisi in un incendio in una fabbrica di Prato. Una delle tante in quell’area, piena di insegne con caratteri orientali. Leonardo Tuci fu tra le prime persone a soccorrere le vittime. Quel giorno era uscito per prestare servizio a una corsa podistica, da volontario dell’Associazione Nazionale Carabinieri. Vide una colonna di fumo che saliva dalla zona industriale e decise di andare a vedere. Un anno fa, sempre di domenica mattina, siamo tornati sul posto con lui.

Ascolta il racconto di Leonardo Tuci

leonardo tuci

“Mi venne incontro una ragazza con un cappottino viola – ricorda – e c’erano altri cinesi in pigiama, pieni di fuliggine. Uno aveva in mano un tubo e spruzzava acqua ma era dolorante, ustionato. Mi urlavano che dentro c’erano tante persone. Ho provato a entrare, in mezzo al fumo che era densissimo. Ho preso in mano l’idrante ma era impossibile andare oltre, non avevo nemmeno l’abbigliamento adatto. Poi c’era il problema delle bombole del gas, che potevano scoppiare da un momento all’altro”.

La testimonianza: “Ho allontanato due persone dalle fiamme”

leonardo tuci

Tuci è riuscito ad allontanare due persone dal rogo. “Cercavo di buttare acqua a più non posso, ma non c’era modo di spegnere l’incendio. La ragazza col cappotto viola continuava a dirmi che dentro c’erano altre persone e indicava in alto. Un operaio ruppe un vetro ma restò intrappolato, perché c’erano le sbarre. Mentre cercavo di salvare altri lavoratori sentii qualcuno che mi diceva di farmi da parte. Erano arrivati i pompieri”.

Poche ore dopo Tuci tornò alla fabbrica, per capire com’era finita. “Sembrava una zona di guerra”. C’erano i sette morti, cinque uomini e due donne. C’erano i sopravvissuti e i giornalisti, che per giorni avrebbero parlato del distretto cinese, dei capannoni in cui si lavora e si vive in condizioni disumane. A gennaio la titolare di fatto dell’azienda, Lin Youlan, è stata condannata a otto anni e otto mesi. Sei anni e 10 mesi alla sorella Lin Youli, sei anni e mezzo a suo marito Hu Xiaoping. Un altro processo è ancora in corso, contro i proprietari italiani della struttura.

  • Autore articolo
    Andrea Monti
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    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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