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Coronavirus, la lettera del professor Rosati: “Non è la peste, ma neanche un’influenza”

covid-19 in italia

Il professor Sergio Rosati, virologo veterinario e professore ordinario di malattie infettive degli animali all’Università di Torino, è stato il co-autore di una lettera, insieme al collega Luigi Bertolotti, indirizza ai suoi studenti per spiegare in modo corretto il coronavirus COVID-19 e invitarli ad essere parte attiva nella comunicazione corretta delle informazioni legate all’epidemia.

Quella lettera inviata via Whatsapp è stata poi condivisa dagli studenti ed ha iniziato a circolare con insistenza anche tra i media italiani. Siamo andati alla fonte e abbiamo intervistato il professor Sergio Rosati durante l’ultima puntata di Itaca. Ecco alcuni passaggi dall’intervista di Raffaele Liguori.

La lettera agli studenti nasce dal fatto che il dipartimento era completamente vuoto. Non essendoci gli studenti abbiamo cercato di comunicare con loro e mantenere aperto un canale di comunicazione diretto.

L’appello è stato lanciato via Whatsapp, ma quella lettera contiene una serie di informazioni utili non soltanto agli studenti, ma a tutti i cittadini.

Non cado nel tranello di entrare nel caos comunicativo. Abbiamo già sentito la voce di eminenti virologi e non vogliamo aggiungere la nostra. Ma voglio ringraziare i nostri studenti, perché se quel messaggio che abbiamo scritto a loro in privato è diventato pandemico lo dobbiamo al fatto che loro sono stati estremamente efficienti nel divulgare questa notizia.
Ci siamo resi conto che i nostri studenti sono di fatto un piccolo esercito di giovani esperti che con i loro metodi di comunicazione possono giocare un ruolo attivo nella comunicazione del rischio in questa fase così delicata. Possono parlare coi loro compagni, con gli amici e i parenti e per questo ci è sembrato giusto dare loro questo mandato.

Voi dite che “il coronavirus non è la peste nera ma non è neanche una banale influenza“. Perché?

È contagioso perché si trasmette per via diretta. Un virus che causa infezioni asintomatiche nell’80% degli individui che infetta è molto più subdolo di un virus che palesa molto più efficacemente la sua presenza. Il virus della SARS era più aggressivo e paradossalmente è stato più facile da contenere proprio perché dava sempre infezioni piuttosto gravi. Qui siamo di fronte ad un coronavirus che tende anche un po’ a nascondersi. La componente della popolazione che si infetta in modo sintomatico è più ridotta e questo è un vantaggio per il coronavirus.
Non è una banale influenza perché l’influenza stagionale arriva nella nostra popolazione che è parzialmente immunizzata da precedenti infezioni e dal fatto che abbiamo uno strumento come la vaccinazione.
Questo è invece un coronavirus nuovo per il nostro sistema immunitario e trova quindi una popolazione molto abbondante e molto facile da trasmettere da un individuo all’altro.
Se l’epidemia va fuori controllo vanno in crisi anche gli ospedali, perché i letti che sono destinati alle terapie intensive non sono tanti in Italia.

In questa lettera fate un’affermazione importante per comprendere quello che sta succedendo. Dite: “In tali casi il virus, senza misure di controllo, avrebbe un andamento epidemico, arrivando ad interessare una larga fascia della popolazione recettiva”.

Gli epidemiologi americani hanno stimato che in assenza di misure di controllo e di contenimento il coronavirus potrebbe infettare il 20/30% della popolazione, l’80% della quale in forma asintomatica. Quello è il numero oltre il quale l’immunità di popolazione inizia a lavorare e inizia a rendere più difficile la diffusione del coronavirus. Questo, in Italia, significherebbe 20 milioni di persone infettate dal coronavirus, di cui una piccola parte potrebbe sviluppare una forma più grave.
L’aspetto importante da sottolineare è che le misure di contenimento che in questo momento vengono percepite come eccessive potrebbero essere la chiave per risolvere il problema in tempi rapidi. In economia vale il concetto che più si spende e meno si spende, nell’epidemia vale lo stesso concetto: più si spende all’inizio e meno si spende dopo. Il costo della prevenzione ci farà risparmiare un sacco di soldi. Se in questo momento abbassiamo le guardia e l’epidemia si allarga, le conseguenze possono essere molto più a lungo termine.

Cosa bisogna fare per evitare il rischio di sovraccaricare il sistema sanitario nazionale?

Il punto nodale è che qualsiasi precauzione, proprio perché deve precedere l’evento, viene percepita come eccessiva. Se il principio di precauzione viene bene applicato non potrà mai essere apprezzato se non si verifica l’epidemia. Al contrario una sottovalutazione del pericolo rischia, in presenza di un’epidemia fuori controllo, di scatenare il panico.
La giusta scelta è sempre un filo sottile che collega questi due estremi. Apparentemente può essere sconveniente dal punto di vista politico, però un eccesso di zelo in questa fase precauzionale verrà percepito male dalla popolazione, ma porterà un enorme vantaggio nel tenere sotto controllo l’epidemia. La nostra sanità pubblica funziona bene in tempo di pace, ma se scoppia un’epidemia e questa va fuori controllo non è in grado di sopportare il peso di una cosa del genere. Già adesso abbiamo delle difficoltà a gestire una quarantena di 50mila persone. In Cina hanno messo in quarantena un numero di persone equivalente alla popolazione italiana.

Lei come risponde a chi si chiede come è possibile che un virus come questo faccia così paura al punto di bloccare le scuole, i cinema e i musei?

Il panico che si genera è globalizzato. Dobbiamo capire che una sottovalutazione del pericolo può far aumentare il numero dei contagi e prolungare l’assenza dei turisti sul nostro territorio. Credo che ora il nostro servizio sanitario sia molto ben organizzato a spegnere sul nascere eventuali piccoli focolai che si potrebbero verificare in altre Regioni. C’è una buona sorveglianza su tutto il resto del territorio nazionale e le persone possono continuare a fare la vita di tutti i giorni. Bisogna però avere un po’ più di attenzione nell’epicentro di questo focolaio epidemico.

Lei è d’accordo sul fatto che dovremmo cambiare il nostro modello di sviluppo quando pensiamo all’intensità con cui alleviamo il bestiame o coltiviamo in modo intensivo?

Tendenzialmente no. È oramai assodato nella comunità scientifica che si occupa di malattie infettive che questi coronavirus originano dalla pessima abitudine di avere ancora e autorizzare i cosiddetti wet market, mercati in cui vengono venduti animali vivi e di specie diverse mantenuti in promiscuità. Lì il coronavirus riesce a prendere una parte dalla specie aviaria, una parte da quella suina e una parte della specie umana e viene trasmesso nel contagio inter-umano. Abbiamo anche un’altra pessima abitudine: cacciare i pipistrelli, macellarli in condizioni igieniche precarie e venderli nei mercati. Gli addetti ai lavori che manipolano queste carcasse sono i primi a contagiarsi e questi coronavirus, in presenza di una carica infettante abbastanza elevata, cominciano a replicarsi a basso titolo in queste persone e imparano perché si adattano in fretta.
Se un Paese come la Cina è abile nel mettere in quarantena una città da 10 milioni di abitanti e se è capace di costruire un ospedale in dieci giorni deve anche essere capace di vietare questo tipo di commercio scellerato degli animali.

È possibile che questo coronavirus si trasmetta anche agli animali domestici?

Questo non lo sappiamo ancora. Un virus come questo ha bisogno di un certo tempo per potersi adattare ed è probabile che ci possano essere delle contaminazioni anche verso gli animali domestici. Il virus, però, avrebbe poi bisogno di cariche infettanti importanti e del tempo per adattarsi ad un’altra specie. In questo momento la situazione epidemiologica italiana è molto lontana dal creare questa condizione.

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