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Cabo Delgado, un paradiso distrutto dagli abusi dell’industria estrattiva

Cabo Delgado - Mozambico

Nella zona settentrionale del Mozambico, al confine con la Tanzania, si trova la regione di Cabo Delgado. Un paradiso tropicale diventato, pochi anni fa, un inferno per i suoi abitanti .

 

Stiamo vivendo una situazione dove ci sono più di 800.000 rifugiati interni, a causa della guerra iniziata nel 2017. Noi di Justicia Ambientale, insieme ad altre organizzazioni del Mozambico, la consideriamo strettamente connessa con i progetti di estrazione iniziati nel 2010-2012, quando è stato scoperto un grosso giacimento di gas naturale.

 

Kete Fumo è un’attivista dell’associazione Justicia Ambiental impegnata nella difesa della popolazione dagli abusi dell’industria estrattiva. Come ci ha spiegato molto bene Fumo, Cabo Delgado è teatro di un’insurrezione armata che in cinque anni ha causato oltre 2mila vittime e 670mila sfollati. Il governo mozambicano, che di recente si è avvalso anche dell’aiuto di milizie estere per far fronte agli Al-Shabaab, il gruppo armato islamista radicale che ha fatto grande presa sulla gioventù locale, attribuisce agli scontri solo la matrice religiosa. Ma, secondo molti, tra cui la stessa Fumo, all’origine della rivolta ci sarebbero anche la condizione di marginalizzazione socio-economica e l’esclusione delle comunità locali dallo sfruttamento delle risorse naturali del territorio.

 

Il Governo sta dicendo che si tratta di terrorismo jihadista islamico ma se si guardano bene le caratteristiche dei terroristi islamici si capisce che non c’entrano nulla con ciò che sta avvenendo a Capo Delgado. Questi terroristi non uccidono solo cristiani o musulmani, ma chiunque. E gli attacchi si focalizzano sulla zona dove c’è il gas con il chiaro obiettivo di attaccare le strutture di estrazione.

Lo scorso anno sono anche riusciti a occuparla per diversi mesi. In quel momento il nostro Governo ha cominciato ad assoldare mercenari che ci aiutassero con questa guerra perché solo allora ha capito che eravamo in guerra, quando gli insorti hanno occupato la zona di Palma.

La militarizzazione del territorio è diventata davvero molto forte. A tutto ciò ha contribuito anche la questione dei “tuna bonds“, lo scandalo che riguarda il forte indebitamento che il Mozambico ora deve affrontare. Il nostro Paese ha un debito superiore ai due miliardi di dollari, una somma che deve restituire ad alcune banche come Credit Suisse. Tutto questo sta avendo un grosso impatto sulla vita delle comunità e la guerra sta mostrando come i processi di estrazione del gas siano legati alla militarizzazione.

I progetti di estrazione vengono realizzati grazie a investimenti che arrivano da altri Paesi, anche Eni è coinvolta. Se riuscissimo a fermare gli investimenti sui progetti di estrazione del gas, noi crediamo fortemente che fermeremo anche la sofferenza delle nostre comunità.

Quello di cui abbiamo bisogno è la creazione di un grande movimento di solidarietà che si muova contro l’industria dei carburanti fossili che non stanno creando solo i problemi sociali che ho menzionato, ma anche problemi economici e climatici.

Il Mozambico è tra i Paesi africani più vulnerabili a causa del cambiamento climatico. Siamo stati colpiti da due enormi cicloni nel 2019. Questi progetti sono lì perché il nostro Governo diffonde la narrazione del gas naturale come la soluzione a tanti problemi. Ma noi la consideriamo una falsa soluzione.

Molte persone probabilmente non sanno dov’è il Mozambico, come vive la nostra gente, ma noi vogliamo essere le loro voci, rendere consapevoli le persone di quanto sta accadendo e creare solidarietà. Chi vive in quelle zone non è al sicuro. Le persone vogliono parlare, raccontare la loro testimonianza, ma non lo possono fare in sicurezza

 

Cabo Delgado è l’ennesima dimostrazione di come l’ingerenza di compagnie straniere in Africa spesso penalizzi lo sviluppo e il benessere della popolazione locale. E tra le aziende che partecipano al progetto di estrazione del gas naturale c’è anche l’italianissima ENI che partecipa a un affare da 150 miliardi di euro in uno dei paesi più poveri dell’Africa orientale e dell’intero continente.

 

Eleonora Panseri
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    Redazione
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    Società Civile per il No. È nato il comitato, promosso da vari esponenti della società civile, da sindacati, associazioni e realtà democratiche, che sostiene le ragioni del No al referendum costituzionale sulla riforma della Giustizia del Guardasigilli Carlo Nordio. Presieduto da Giovanni Bachelet, il comitato ha nel direttivo nomi importanti come il segretario della Cgil Maurizio Landini, la presidente di Libertà e Giustizia Daniela Padoan e l’ex ministra Rosy Bindi. I principali punti del comitato vertono sul fatto che una magistratura autonoma, indipendente, che non guarda in faccia a nessuno sia una cosa che conviene ai cittadini. Il prossimo 10 gennaio a Roma si terrà la prima assemblea generale, per la partenza della campagna referendaria, che vedrà la nascita di comitati territoriali in tutta Italia per lanciare una campagna informativa sulle ragioni del No. “Riteniamo che sia una battaglia per evitare che venga minato un principio fondamentale della nostra democrazia”, ha detto Rosy Bindi, che fa parte del direttivo del comitato, nella nostra trasmissione Radio Sveglia. L'intervista di Alessandro Braga.

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