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Burundi, Bujumbura va alla guerra

Il Burundi è in guerra. Le ultime notizie dal piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi non descrivono più solo sporadiche e preoccupanti sparatorie, né massacri di civili circoscritti in questo o quel quartiere di Bujumbura.

Una donna che abita nella capitale del Paese, il 13 dicembre raccontava a Radio Popolare di continue sventagliate di armi pesanti fin dall’alba, di tre caserme attaccate contemporaneamente, di rappresaglie dei militari, di decine di civili massacrati, di una città deserta e di raccomandazioni dei diplomatici stranieri di rimanere barricati in casa.

La prima responsabilità di tutto questo è di un piccolo e insulso presidente, Pierre Nkurunziza, che rispettando un odioso copione africano ha deciso di vincere con l’imbroglio le ultime elezioni per la massima carica dello stato nonostante la costituzione gli vietasse di presentarsi per la terza volta.

Poi c’è la responsabilità di tutto il suo avido e onnivoro entourage: militari, generali, politici, burocrati che stanno legati saldamente al carro del vincitore.

C’è anche una responsabilità dei vicini della regione che non hanno mosso un dito per dissuadere Nkurunziza dal condurre il Paese a questo disastro. Ma del resto costoro – il ruandese Paul Kagame, il congolese Joseph Kabila, l’ugandese Yoweri Musseweni, – si preparano per fare la stessa cosa. Per loro Nkurunziza era il precedente che farà loro comodo quando internamente e esternamente ci saranno proteste per la loro ricandidatura.

Ma una delle responsabilità maggiori è quella della cosiddetta comunità internazionale. Che Nkurunziza avrebbe adottato quella linea lo si sapeva da tempo, ma nessuno lo ha minacciato di interruzione delle relazioni, di embargo, di sanzioni, anche personali, a lui e alla sua famiglia (spesso le famiglie dei dittatori sono gravemente danneggiate se non possono andare a fare acquisti firmati nelle rinomate strade delle capitali europee).

Insomma nessuno ha fatto sentire il peso a Nkurunziza di una Europa capace di chiudere con personaggi del genere. Anche ora, in previsione delle stesse gesta dei suoi vicini, non riusciamo a dire loro che se sbeffeggieranno la democrazia, la costituzione, il volere del popolo l’Europa non li riconoscerà più nella loro carica, pur continuando (ovviamente) a riconoscere il popolo e ad aiutarlo, nelle fughe o nella lotta per la democrazia.

Uno dei motivi per il quale l’Europa non riesce ad essere drastica con questi personaggi e con i loro entourage è che (pur non dicendolo mai chiaramente) se chiudiamo con loro, un attimo dopo questi si rivolgeranno alle economie emergenti e alle potenze politiche rivali dell’Asia, come la Cina, l’India, la Malesia, oltre alla Russia. E otterranno credito. Vero, purtroppo. Ma l’Europa non si sottovaluti troppo perché potrebbe sembrare pretestuoso.

  • Autore articolo
    Raffaele Masto
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    Marco Sioli insegna Storia dell'America del Nord all'Università degli Studi di Milano La Statale. Nei suoi libri indaga sotto molteplici sfaccettature alcune peculiarità della storia, della cultura e della politica degli Stati Uniti d'America. Il suo ultimo libro, "In difesa della natura selvaggia" (edito da Elèuthera), è un viaggio attraverso i più noti parchi nazionali nordamericani e, nel contempo, una riflessione sul lascito dei capostipiti dell'ambientalismo statunitense (Thoreau, Olmsted, Muir e Leopold). A Cult, Roberto Festa ha intervistato Marco Sioli che sarà al FestivaLetteratura di Mantova 2025, iniziato proprio oggi, mercoledì 3 settembre.

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