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Belgrado: tra ‘rinascita’ e il dramma dei profughi

Savamala è uno storico quartiere di Belgrado che riposa all’ombra del Brankov Most, il ‘ponte di Branko’, e si dipana lungo la riva destra del fiume Sava, protetta da vecchi palazzi. Fu proprio la Sava a dare il nome al quartiere. Il suffisso “mala” deriva dalla parola turca mahala – il quartiere residenziale delle città ottomane – abbreviato poi in mala.

Savamala è uno dei quartieri più interessanti della città, rivitalizzato negli ultimi anni da artisti e ragazzi che hanno aperto locali ed atelier in edifici vecchi e cadenti. Proprio alcuni di questi edifici sono stati espropriati con una legge speciale da parte del governo, obbligando i proprietari a sgomberare l’area per far posto a un’opera di “pubblica utilità”. Si tratta della costruzione del nuovo complesso “Belgrado sull’acqua”: un progetto che prevede la realizzazione di appartamenti di lusso per 17.000 persone, 750.000 metri quadrati di uffici e spazi commerciali, con alberghi a cinque stelle, un muro di grattacieli che sarà caratterizzato dall’edificio più alto in Europa sud-orientale, un Teatro dell’Opera, e il più grande centro commerciale del continente.

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L’investitore non è un attore dei giochi di potere locale, e neanche un ricco barone dell’edilizia dall’Europa occidentale o dalla Russia: si tratta di Mohamed Alabbar, l’uomo che dirige l’azienda di sviluppo di Abu Dhabi Eagle Hills, noto per aver fondato Emaar, società responsabile della costruzione del Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo, e il Dubai Mall, il più grande centro commerciale del mondo.

Dopo aver cacciato, anche con modi violenti, chi da anni vive a Savamala e dopo aver messo a rischio le attività di chi in questi anni sta rivalutando il quartiere, i lavori ora si si stanno concentrando in quello che fino a poco tempo fa era un grande buco nel terreno ricoperto da una piattaforma di ponteggi in un’area abbandonata e invasa da erbacce, alle spalle di un vecchio deposito ferroviario sulle rive della Sava.

I decrepiti capannoni di questo deposito sono perimetrati da decine di cartelloni pubblicitari, griffati “Belgrade Waterfront”, con i rendering del progetto targato Mohamed Alabbar. Ed è proprio in questi capannoni, privi di finestre e con il tetto cadente, che vivono centinaia (ai primi di febbraio la stima era di circa 1.200 persone) di profughi. Passata l’ondata dei siriani, che hanno lasciato la Serbia per l’Europa, ora sono cittadini pakistani e afgani.

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Il governo serbo si è dichiarato disponibile ad ospitarli in caserme, parzialmente ristrutturate per la bisogna. Una proposta che la maggioranza dei profughi rifiutano perché hanno paura che questo impedirebbe loro di proseguire il viaggio verso Nord. Come risposta a questo rifiuto il governo serbo sta attuando una politica che trasforma questi capannoni in una sorta di limbo. Nessun presidio da parte delle forze dell’ordine, ma anche nessun aiuto. In compenso si ostacolano i lavori delle organizzazioni umanitarie a cui viene reso difficile persino consegnare abiti e beni di prima sussistenza ai profughi. Viene garantito un solo pasto giornaliero. Tutto per spingere i profughi ad accettare l’ospitalità nelle caserme.

Profughi 02_BEOGRAD febbr 2017

La vita in queste condizioni è un inferno. Le temperature in queste settimane sono scese sino a -15 gradi. Per riscaldarsi vengono accesi fuochi dove viene bruciato di tutto, creando fumi tossici. Manca la corrente elettrica. Non c’è acqua per lavarsi e non ci sono gabinetti. Il puzzo all’interno dei capannoni regna sovrano. Qui i profughi si dividono in gruppetti, a secondo delle tribù di provenienza. Molti sono giovani, di entrambi i sessi. Abbondano i minorenni, molti dei quali non accompagnati da genitori o parenti. La speranza, da parte delle famiglie, è che riescano a raggiungere un paese dell’Europa per poter poi chiedere il ricongiungimento.

Una fotografia più a fuoco di questo ‘popolo dell’abisso’ (Jack London concorderebbe su questa definizione) la si può avere a Miksalište 2.0, uno stanzone a meno di un chilometro dai capannoni. Qui i profughi possono caricare i cellulari, l’unico cordone ombelicale che li unisce alle loro famiglie. Divisi in gruppetti, si raggruppano attorno a ciabatte in cui vengono connessi cinque o sei caricatori. I più chattano, senza fare vere e proprie telefonate. Altri si accontentano dei video giochi. Rigidamente vestiti di nero, sono rannicchiati in giacconi e maglioni oversize. Nerissimi anche i capelli, dato che prevalentemente sono giovani sui vent’anni.

Miksaliste 2.0

Le donne non stanno nel women’s corner, ma deambulano nello stanzone. I bambini fanno i bambini: corrono, gridano, vanno avanti e indietro nello spazio del Miksalište 2.0 . Le bambine invece sono delle donnine: tranquille stanno in silenzio accanto alle sorelle maggiori (che forse sono le mamme). Le loro scarpe, a differenza di quelle dei maschietti, non sono infangate. Ma è solo un dettaglio. Entrambi, bambini e bambine, li puoi trovare al vicino mercato. Qui vendono ai belgradesi quello che ricevono dalle organizzazioni umanitarie: dalle scatole di sardine agli scarponi con suola carro-armato. La speranza di attraversare il confine con l’Ungheria costa cara. Più si alzano muri, e più aumentano le tariffe dei trafficanti d’uomini…

Profughi 03_BEOGRAD febbr 2017

Dragan Petrovic segue l’evoluzione della situazione sin da quando i primi profughi sono arrivati a Belgrado. Questa la sua analisi:

intervista a Dragan

  • Autore articolo
    Claudio Agostoni
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    Di palo in frasca - 04-12-2025

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

    Poveri ma belli - 04-12-2025

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    Greenwich Village, anni ‘60: un tuffo nel passato con Elijah Wald

    Questa settimana Elijah Wald è in Italia per portare sul palco, tra Milano, Torino e Piacenza, le sue storie su Bob Dylan e il Greenwich Village di New York. Chitarrista folk blues ma anche narratore e giornalista musicale, attraverso canzoni e racconti Wald ripercorre nel suo spettacolo il cammino di Dylan e dei tanti personaggi di quel periodo irripetibile. Da Woody Guthrie a Pete Seeger, da Eric Von Schmidt a Dave Van Ronk - quest’ultimo anche protagonista del film dei fratelli Coen “A proposito di Davis” e realizzato partendo proprio dal memoir scritto da Wald. Oggi Elijah è venuto a trovarci a Radio Popolare per raccontarci la sua storia e suonarci alcuni brani tra Mississippi John Hurt, Paul Clayton e Victor Jara. Ascolta l’intervista e il MiniLive di Elijah Wald.

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    Vieni con me è una grande panchina sociale. Ci si siedono coloro che amano il rammendo creativo o chi si rilassa facendo giardinaggio. Quelli che ballano lo swing, i giocatori di burraco e chi va a funghi. Poi i concerti, i talk impegnati e quelli più garruli. Uno spazio radiofonico per incontrarsi nella vita. Vuoi segnalare un evento, un’iniziativa o raccontare una storia? Scrivi a vieniconme@radiopopolare.it o chiama in diretta allo 02 33 001 001 Dal lunedi al venerdì, dalle 16.00 alle 17.00 Conduzione, Giulia Strippoli Redazione, Giulia Strippoli e Claudio Agostoni La sigla di Vieni con Me è "Caosmosi" di Addict Ameba

    Vieni con me - 04-12-2025

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    Una mostra fotografica ripercorre i 50 anni di Radio Popolare. Dal 14 dicembre a Milano

    Domenica 14 dicembre alle ore 10, presso la Sala Cisterne della Fabbrica del Vapore, a Milano, inaugura la mostra "50 e 50. La mostra. Radio Popolare 1975 - 2025", una delle prime iniziative organizzate per celebrare il 50esimo anniversario dalla fondazione di Radio Popolare. La mostra racconta i cinque decenni "di onda" attraverso venti storie realizzate dai fotografi che in questi anni sono stati vicini alla radio. Inoltre, la mostra ospiterà un’interpretazione creativa realizzata da Studio Azzurro dei video che ricostruiscono la storia di Radio Popolare. La mostra sarà allestita fino al 25 gennaio. Tiziana Ricci ce la racconta insieme a Giovanna Calvenzi, che ne è la curatrice.

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