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Assad e il Paese che non c’è più

Dopo la caduta di Aleppo alla fine dell’anno scorso la crisi siriana è entrata come previsto in una nuova fase. Il regime si è ulteriormente rafforzato. Assad, almeno per ora, rimarrà al suo posto. I ribelli hanno accettato definitivamente che non arriveranno mai a Damasco.

Dopo quasi sei anni anche le milizie più determinate e meglio armate sono stanche di combattere. La rivoluzione non esiste più, il conflitto siriano si è ormai trasformato nella somma di tanti conflitti locali. Milizie, mercenari, signori della guerra, rispondono al loro fronte di riferimento, governo e opposizione, ma non portano più avanti la stessa campagna, soprattutto sul fronte anti-regime.

In questo contesto il cessate il fuoco in vigore dal 30 dicembre ha ridotto in maniera importante l’intensità degli scontri e dei combattimenti, ma non ha fermato e non fermerà la guerra. La tregua viene violata quotidianamente, e non solo nelle zone dove fanno base ISIS e Fateh al-Sham, ex-Fronte Nusra, entrambi esclusi dal cessate il fuoco. La maggior parte delle violazioni, spesso sotto forma di bombardamenti da parte del regime, è nella provincia di Aleppo, in quella di Idlib, a nord della città di Hama (Siria centrale), intorno a Damasco. In questa settimane sono state colpite anche quelle zone dove si erano rifugiati i civili scappati da Aleppo lo scorso dicembre.

La tregua era stata sponsorizzata e sostanzialmente concordata da Russia e Turchia. Putin ed Erdogan, fino a qualche mese fa in rotta di collisione, avevano capito che era arrivato il momento di dialogare, per i loro stessi interessi. E infatti insieme al cessate il fuoco Mosca e Ankara vorrebbero lanciare anche un negoziato politico tra regime e opposizione. Il primo appuntamento è stato fissato ad Astana, in Kazakistan, per il 23 di gennaio. In realtà la data non è ancora certa, ma turchi e russi continuano a ribadire che non ci sono cambiamenti di programma.

Qui ci sono almeno due problemi. Il primo. Qualche giorno fa Assad ha detto di essere pronto a negoziare su tutto, ma in realtà non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di lasciare il suo posto. Come molte altre volte in passato il suo futuro sarà uno dei nodi più complicati da sciogliere. In linea di principio l’opposizione ha accettato di andare ad Astana, ma ha anche detto molto chiaramente che non negozierà il futuro di un paese dove Assad continuerà a fare il presidente.

Il secondo problema. L’iniziativa di Russia e Turchia è parallela a quella delle Nazioni Unite e finora, se si esclude ovviamente la Turchia, non è stata appoggiata dai tanti sponsor dell’opposizione, Occidente e paesi arabi del Golfo. Visti i tanti interessi in gioco in Siria un vero negoziato dovrebbe coinvolgere tutti gli attori in campo, su entrambi i fronti.

In attesa di un qualche tipo di accordo politico la Siria è quella che esce da sei anni di guerra civile. Dal punto di vista militare e politico Assad sta vincendo la guerra, ma il suo paese non esiste più. La caduta di Aleppo, come era successo prima con alcuni piccoli centri intorno a Damasco, è emblematica. Le truppe governative e le tante milizie straniere che combattono con Assad sono entrate in quartieri completamente rasi al suolo, disabitati, dove non resta nulla.

Ricostruire un paese dove oltre la metà della popolazione è scappata di casa, dove l’80% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, dove i danni alle infrastrutture ammontano a circa 200 miliardi di dollari, dove i bambini non vanno più a scuola è opera alquanto ardua, e che sarà possibile solo grazie all’intervento esterno.

Si torna quindi alle influenze regionali e ai tanti conflitti locali, che in fasi diverse hanno caratterizzato profondamente la crisi siriana. Gli interventi post-bellici, se e quando ci saranno, consolideranno la divisione del paese in zone d’influenza, dove probabilmente rimarranno focolai di rivolta e questioni aperte, pensate solamente al dossier curdo nel nord del paese. Una specie di somalizzazione. Assad regnerà, ma non governerà quello che resta del suo paese.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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