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“La storia dell’epidemia nella bergamasca verrà riscritta”, parla Giuseppe Marzulli, ex direttore medico dell’ospedale di Alzano Lombardo

Alzano Lombardo francesco zambon

“Di fare la zona rossa non se ne parla”. All’ex direttore medico dell’ospedale di Alzano Lombardo Giuseppe Marzulli glielo dissero già la sera del 23 febbraio, quando lui aveva predisposto l’ospedale di Alzano per la grande chiusura. “Bloccammo il ricambio del personale, ci aspettavamo la zona rossa, subito, quella sera del 23 febbraio. Non il 2, il 3 o il 4 marzo quando ormai non sarebbe servita a nulla”. A Codogno due giorni prima, il 21 febbraio, la zona rossa fu decretata subito, perché ad Alzano sarebbe dovuta andare diversamente? Erano già due i positivi all’interno della struttura, altri pazienti avevano sintomi. La storia andò diversamente e ora dalla Procura di Bergamo emergono nuovi particolari inquietanti che chiamano in causa direttamente l’Ast di Bergamo.”È una storia che verrà riscritta dalle indagini quella dell’epidemia nella bergamasca” ci dice Marzulli in questa intervista. Lo abbiamo incontrato a casa sua nella bergamasca, ancora molto provato da questo anno terribile. Anche Marzulli ha avuto il Covid, ha perso amici e colleghi, oggi è in pensione. È stato l’unico con incarichi di responsabilità ad aver detto no ad ordini che riteneva sbagliati. Come la riapertura dell’ospedale di Alzano. Quello della bergamasca è considerato il cluster più mortale d’Europa. Perché furono così tanti morti in quel territorio?

Quanto è stato duro quest’anno?

Ti devo dire la verità, adesso sto bene, ma ho passato momenti difficilissimi, sia sul piano professionale che su quello personale, perché anch’io mi sono ammalato di Covid e ho avuto una polmonite bilaterale. Quello che abbiamo vissuto dal punto di vista professionale non si può immaginare. Quando questa storia sarà finita racconterò i sacrifici immensi che l’ospedale di Alzano Lombardo e tutto il suo personale fecero per tamponare una situazione di cui non avevamo nessuna responsabilità.

Cosa pensò quando uscì la notizia di Codogno?

Si fa fatica a comprendere questa situazione se non si ricorda l’atteggiamento dei media
dell’epoca. Il professor Brusaferro, il portavoce del Comitato Tecnico Scientifico, l’11 febbraio, rilasciò un’intervista in cui dichiarò che il virus non circolava sul territorio nazionale.
Il virus in realtà circolava da più di un mese e non se ne erano accorti.

Risulta che già prima del 23 febbraio, quando arrivarono i primi due tamponi positivi, all’ospedale di Alzano erano già presenti casi di polmoniti “atipiche”.
Perché non sono stati identificati subito come casi di coronavirus?

Questa è una domanda che deve rivolgere al Ministero della Salute.
Occorre conoscere il contenuto della circolare del Ministero del 27 di gennaio, che dava le indicazioni in base alle quali era ipotizzabile un caso di Covid. Erano indicazioni di natura esclusivamente epidemiologica e non clinica. Voleva dire che si doveva sospettare che un paziente avesse il Covid solo se fosse stato in Cina. Noi chiedevamo ai pazienti se ci fossero mai stati e loro ci rispondevano: “Io la Cina non so neanche dove sia”. Per scrupolo chiedevamo persino se qualche familiare si fosse recato a Wuhan recentemente, anche se non era richiesto dai protocolli, ma ovviamente la risposta era sempre no.

Quindi quei protocolli erano inadeguati?

Assolutamente si. Ritengo che questo sarà oggetto di un’indagine approfondita.
Non si sfugge: o è colpa dei  medici o della circolare del Ministero.
Le faccio una domanda a questo proposito. Oggi sappiamo che il virus circolava in Italia da gennaio. Com’è possibile che nessun medico abbia mai diagnosticato un caso di Covid prima del 20 di febbraio? È possibile che i medici italiani siano tutti degli incompetenti? Possibile che non si sia trovato un medico capace?
Il problema è che tutti seguivamo le indicazioni sbagliate della circolare del Ministero della Salute.

Si arriverà sicuramente a indagare a livello tecnico sul ministero e forse anche a livello politico.

Domenica 23 febbraio, arrivò l’esito positivo di due tamponi e scopriste di avere dei pazienti positivi all’interno dell’ospedale di Alzano. Cosa successe in quell’occasione?

Un medico mi avvertì dell’esito positivo di quei due tamponi. Mi feci spiegare la storia dei casi, gli chiesi di controllare se i pazienti o dei loro familiari fossero stati in Cina.
Tutto questo non era previsto dalla circolare, era un eccesso di scrupolo.
Lui mi rispose di aver già verificato, mi assicurò che nessuno dei pazienti aveva avuto contatti con persone che erano state in Cina.

A questo punto gli dissi che avevo bisogno di pensarci per qualche minuto, perché quello che stava accadendo era un evento inaspettato. Ci aspettavamo di poter ricoverare qualche paziente infetto da Covid, ma non ci aspettavamo che questi pazienti non avessero avuto nessun contatto “cinese”. Arrivai alla conclusione che se avevamo dei pazienti positivi, che palesemente non avevano avuto nessun contatto con la Cina, la cosa poteva avere un solo significato: l’epidemia era già largamente diffusa sul nostro territorio. Non c’era altra spiegazione.

Certamente l’epidemia era stata portata in Italia settimane prima da qualcuno che era stato in Cina, ma a quel punto si era già diffusa senza che nessuno se ne accorgesse ed era esplosa all’improvviso. Per chi non è esperto del settore può sembrare una cosa strana, ma in realtà è il comportamento che hanno la maggior parte delle epidemie.
Arrivato a questa conclusione decisi di chiudere immediatamente il pronto soccorso e l’intero ospedale di Alzano, perché ci trovavamo di fronte a una situazione che non era prevista.

Non avevate delle indicazioni chiare da seguire in caso di riscontro di pazienti positivi al Covid?

Il piano pandemico italiano risaliva al 2006, prevedeva un aggiornamento triennale e delle esercitazioni nazionali e regionali (sempre ogni tre anni). Nessuna di queste indicazioni è stata seguita, il piano non è mai stato aggiornato e non è mai stata fatta nessuna esercitazione. È importante ricordare che non esistva soltanto il piano pandemico nazionale, ma anche un piano regionale, la regione Lombardia aveva un proprio piano pandemico, che non fu mai applicato.

Torniamo ad Alzano Lombardo, l’ospedale fu chiuso ma venne riaperto dopo poche ore. Perché?

Quello che posso dire è che io mi rifiutai di riaprirlo, questo risulta agli atti delle indagini e non ho paura di dirlo. Ero assolutamente contrario alla riapertura.
La motivazione per cui il pronto soccorso di Alzano fu riaperto è uno dei punti più delicati dell’indagine e purtroppo non posso parlarne.

In quei momenti con chi si relazionava?

Mi relazionavo con la direzione nazionale della nostra azienda. Non ho mai parlato direttamente con la Regione. Non sono a conoscenza dei contenuti delle conversazioni tra la direzione nazionale, la Regione e l’ATS (Agenzie di Tutela della Salute).

Il 25 febbraio scrisse una lettera Indirizzata alla A.S.S.T. Bergamo Est chiedendo la chiusura del pronto soccorso di Alzano. La ricorda?

Certo, In quella lettera tornavo a chiedere la chiusura. I termini in cui è stata scritta lasciano trasparire chiaramente il mio stato d’animo dell’epoca.
In quella lettera parlavo di comportamenti contrari al buonsenso e alla scienza medica.

Ci furono altre comunicazioni scritte come questa? Ci sono dei documenti oppure tutta la comunicazione fu esclusivamente verbale?

La comunicazione fu prevalentemente verbale. Quella scritta si limita a questa lettera e alcune mail che però sono coperte dal segreto istruttorio. La maggior parte delle comunicazioni furono verbali, eravamo impegnati a gestire una situazione difficile e non pensammo a lasciare documenti scritti che poi sarebbero serviti a giustificarci.

Oltre a capire chi diede l’ordine di riaprire è molto importante capire quali furono le motivazioni per cui fu presa questa decisione.

Secondo lei, come mai ad Alzano Lombardo non fu immediatamente dichiarata la zona rossa e non fu chiuso l’ospedale come accadde a Codogno?

Dirò una cosa di cui non penso che i media siano a conoscenza. Ad Alzano predisponemmo tutto per l’istituzione della zona rossa già il 23 di febbraio e non per il 3 marzo quando ormai non aveva più senso.
In particolare, come dimostreranno gli atti, bloccammo il ricambio del personale.

Questa era una procedura interna all’ospedale o sentivate che ci poteva essere la possibilità di arrivare alla zona rossa?

In ospedale ci aspettavamo che la zona rossa sarebbe stata istituita immediatamente invece ci dissero che non se ne parlava. Tutto questo emergerà chiaramente dalle indagini.

Anche in questo caso non ebbe nessun dialogo diretto con la regione Lombardia?

No. Questo non deve stupire, in ospedale seguiamo una catena gerarchica. È normale che con la Regione si rapporti il direttore generale o il direttore sanitario aziendale. Se mi fossi riferito direttamente alla Regione avrei scavalcato queste due figure e non sarebbe stato corretto.

Secondo lei come mai non fu istituita la zona rossa in Val Seriana?

Questo non lo so. Posso solo dare la mia opinione da cittadino.
Penso che la decisione fu presa a seguito delle polemiche che suscitò l’istituzione della zona rossa a Codogno.

Giuseppe Marzulli è stato sentito dalla procura di Bergamo come testimone, è molto attento nel rispettare il segreto istruttorio e il lavoro della magistratura. Ci dice però che questa storia verrà riscritta perché emergeranno responsabilità pesanti a Bergamo, non solo a livello nazionale e regionale, nella gestione di quei giorni.

Ritengo che l’accaduto, in termini di responsabilità, viaggi su due binari paralleli,
uno è il binario delle responsabilità istituzionali del ministero della salute, che furono molto gravi. Nella bergamasca e forse anche in Lombardia, invece, ritengo che a queste responsabilità si aggiunsero anche responsabilità di natura specifica, riguardanti comportamenti non corretti nella gestione complessiva dell’epidemia.

Quindi  pensa che questa inchiesta sia destinata ad allargarsi? 

Sono convinto di sì. Come ho detto prima questa inchiesta procede su due piani  paralleli.
Il primo è quello delle responsabilità del ministero e della Regione, come enti che avrebbero dovuto effettuare la preparazione alla fase epidemica e non lo fecero. Questo è un filone che procede per la propria strada e i risultati saranno uguali per Bergamo come per per ogni altra città italiana, perché furono fatti più o meno gli stessi errori. Il secondo invece è quello della bergamasca che riguarda le responsabilità della gestione dell’epidemia, che non possono essere imputate soltanto alle istituzioni.

Quindi? Ci faccia capire un po’ di più.

Quindi, la storia dell’epidemia nella bergamasca, quando saranno noti i risultati delle indagini, verrà completamente riscritta.

C’è una forte responsabilità di chi prendeva decisioni in questo territorio?

Di certi avvenimenti sono stato testimone diretto, di altri no, l’unico vantaggio che ho rispetto a voi è quello di poterli interpretare in base all’esperienza vissuta, ma ritengo di si.

 

L’Ats di Bergamo e la presunta strategia del silenzio

Qualche giorno fa un inchiesta di Tv7 ha svelato che il primo positivo nella bergamasca non fu ad Alzano Lombardo il 23 febbraio, come tutti pensano, ma all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo il giorno prima. E l’Ats di Bergamo silenziò tutto. Un particolare inquietante, che riscriverebbe anche la storia della mancata chiusura dell’ospedale di Alzano. E che ci rimanda a quanto evocato da Marzulli nell’intervista.
Così ha commentato ai nostri microfoni l’avvocato dei famigliari delle vittime del Covid Consuelo Locati queste clamorose novità che chiamano in causa l’Ats di Bergamo:

 

 

FOTO| La protesta, davanti all’ospedale di Alzano Lombardo (Bergamo), dei parenti dei malati di Covid-19 deceduti, 6 giugno 2020

  • Autore articolo
    Roberto Maggioni
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