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Accogliere, tradizione triestina

Malik e suo figlio

“Noi accogliamo sia richiedenti asilo che già titolari di protezione, e permettiamo loro di vivere in appartamenti, come tutti gli altri cittadini triestini o stranieri che vivono qui”. Con queste poche parole Gianfranco Schiavone, presidente di ICS – Ufficio Rifugiati Onlus, sintetizza cosa fa la sua associazione per i tanti migranti che quotidianamente arrivano in città: trova loro una sistemazione dignitosa. In realtà c’è molto di speciale in questo: tanto per cominciare perché questa attività a Trieste è ormai consolidata, perché iniziata nel 2002. Poi anche perché la presenza di richiedenti asilo in città è molto alta: 4 ogni mille abitanti, la media nazionale italiana è meno della metà, 1,6. Per una città che conta 200mila abitanti, non è poco.

“Al momento ci sono circa 600 persone che vivono negli appartamenti, soprattutto nell’area urbana triestina, al massimo nella periferia o in provincia, appena fuori dalla città”, continua Schiavone.  Nonostante un rallentamento degli arrivi, (“ma è troppo presto per dire se sia causato dalla chiusura delle frontiere della rotta balcanica oppure da altri motivi” precisa Schiavone), a Trieste arrivano ogni giorno 10-15 migranti.

Tre i fattori che hanno permesso a Trieste di sviluppare questa buona pratica di accoglienza: la crisi del mercato immobiliare, e la presenza di molti appartamenti sfitti disponibili; la piccola dimensione della città, che permette di coordinare e di gestire spostamenti e attività facilmente; e di certo anche la cultura di città di confine. Nonostante le resistenze e i movimenti politici avversi, infatti, conclude Schiavone: “La storia di questa città è una storia di mescolanze, di lingue e culture diverse. Anzi noi diciamo che la situazione di oggi, di Trieste, rispecchia quella del suo passato migliore”.

Sono soprattutto afghani e pakistani i richiedenti asilo che arrivano in questa città. Infatti le famiglie che vivono insieme nell’appartamento in centro città che visito, sono tutte afghane. C’è una giovane coppia senza figli, arrivata in Italia da 3 mesi; c’è un padre con la moglie e i tre figli; c’è, caso assolutamente singolare, una donna sola coi suoi quattro figli, arrivata da pochissimi giorni. Ogni nucleo ha camere da letto separate, la cucina invece è in comune, e, complice la stessa lingua e la stessa cultura, spesso le donne cucinano anche per gli altri.

E poi c’è Malik, che con il figlio maschio di 11 anni è in Italia ormai da due anni, e sta aspettando il ricongiungimento famigliare per riabbracciare la moglie e le sue due figlie, che non vede da quattro anni. Un’attesa che gli sembra interminabile: “Per me è troppo dura” mi dice, “A volte mi dico che era meglio restare in Afghanistan, almeno non avrei dovuto sopportare questa lontananza”. Nel frattempo Malik ha trovato lavoro, mentre suo figlio frequenta la scuola. Anche Malik sta studiando, ma, spiega, “Nell’ultima settimana sono così stressato che ho perso anche la voglia di studiare: spero ogni giorno che mi arrivi una telefonata dall’ambasciata italiana per dirmi che i documenti sono pronti”.

Nemmeno il figlio di Malik riesce a trattenere la voglia di rivedere la sua mamma e le sue sorelle: “Volevo dire una cosa per la mia mamma”, mi dice fermandomi proprio mentre sto uscendo dall’appartamento: “Stiamo aspettando per il documento del visto e non sappiamo quando arriverà. Sono passati 14 mesi, e non ci hanno ancora detto niente, non sappiamo qual è il problema e perché ci stanno mettendo così tanto”, mi guarda con sguardo serio, e conclude “Io voglio soltanto che la mia mamma e le mie sorelle vengano”.

Ascolta la puntata di Welcome del 6 marzo, dedicata ai progetti di accoglienza di famiglie a Trieste

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    Sara Milanese
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