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Rimosso vescovo di Albenga. “Ma gli abusi ci sono ancora”

Il vescovo della diocesi di Imperia e Albenga Mario Oliveri è stato rimosso dal suo incarico dal papa. Formalmente, Bergoglio ha accettato oggi, con una bolla papale, le dimissioni presentate dallo stesso Oliveri. Ma si tratta di una procedura che, nella sostanza, prende atto e ratifica le accuse rivolte al monsignore. In particolare, quella di aver coperto, accogliendoli nella propria diocesi, preti accusati e, in alcuni casi, condannati, per pedofilia. La scelta di papa Francesco era arrivata dopo le segnalazioni di numerosi episodi controversi e scandali, tutti raccolti in un dossier che il nunzio apostolico Adriano Bernardini consegnò a papa Francesco dopo una visita alla diocesi di Imperia e Albenga, guidata da Oliveri dal 1990.

“Una buona notizia, ma la Chiesa copre ancora troppi casi, lasciando al loro posto preti pedofili. E Bergoglio non sta davvero cambiando le cose”: questa l’accusa lanciata da Francesco Zanardi, presidente dell’associazione Rete l’Abuso, che denuncia casi di pedofilia nella Chiesa e assiste le vittime. Lo stesso Zanardi, da bambino, venne abusato da un sacerdote, proprio in quella diocesi.

“La diocesi di Albenga – racconta Zanardi – in questi anni è diventata un rifugio pecatorum di diversi preti già condannati per pedofilia in altri paesi e poi trasferiti e lì accolti. Ma non solo casi di pedofilia. Addirittura con il caso di don Paolo Piccoli, qualche giorno fa rinviato a giudizio per omicidio. E’ stata la diocesi degli scandali per tanti anni”.

Il vescovo Oliveri che ruolo ha avuto in tutto questo?

“Sicuramente sapeva da dove venivano queste persone. L’ultimo caso di pedofilia che abbiamo denunciato è quello di don Francesco Zappella, condannato nel 1992 a Pinerolo per abuso di minori e poi accolto nella diocesi di Albenga. C’è poi il caso di don Renato Giaccardi, condannato per isitigazione alla prostituzione minorile a Cuneo, e poi accolto ad Albenga. Insomma, una serie di personaggi indagati in varie zone d’Italia che poi ci siamo ritrovati in questa diocesi”.

Ma il ricollocamento di preti accusati o condannati per pedofilia in diocesi diverse da quelle di provenienza è una pratica diffusa?

“Purtroppo sì, i casi sono molti, e per questo noi diciamo di non denunciare all’autorità ecclesiastica ma alla magistratura. C’è un caso, quello di don Francesco Rutigliano, condannato dall’autorità ecclesiastica per abuso di minori nella Locride, mai denunciato all’autorità giudiziaria e trasferito a Civitavecchia. Lo abbiamo scoperto l’anno scorso”.

Perché succede questo?

“Innanzitutto perché se le condanne restano solo a livello canonico – e non giudiziario – vengono spesso taciute. C’è anche una grossa lacuna che non riguarda solo la Chiesa ma la pedofilia in generale: in Italia non abbiamo un database nazionale dei condannati per pedofilia, come avviene in molti Paesi. Noi come Rete l’Abuso abbiamo fatto una mappa che trovate sul nostro sito intitolata ‘Diocesi non sicure’: abbiamo raccolto i casi che conosciamo riferiti agli ultimi 15 anni in Italia. E siamo arrivati a 230 casi di sarcerdoti tra i condannati e gli indagati per pedofilia: molti di questi li ritroviamo in altre parrocchie”.

Anche a contatto con i bambini?

“Assolutamente sì. Nel caso che citavo prima, quello di don Renato Giacardi, condannato a Cuneo e spostato a Loano, sono insorti anche i parrocchiani. Ma questo non è bastato a rimuoverlo dalla parrocchia, dove si presume, ci siano anche attività con minori”.

Questo suo impegno nasce da un’esperienza personale: lei da bambino è stato vittima di un prete pedofilo.

“Sì, io sono stato abusato da un sacerdote a Spotorno, dagli 11 ai 16 anni. Che poi siamo riusciti a far condannare nel 2012. Abbiamo dovuto cercare un modo per abbattere i tempi di prescrizione. E siamo partiti da fatto che la pedofilia non passa, continua nel tempo. E così ci siamo messi a cercare altre vittime, vittime di reati non ancora caduti in prescrizione. Le abbiamo trovate e abbiamo denunciato. In questo modo siamo riusciti, non solo nel caso del mio abusatore, a innestare dei procedimenti penali per dare giustizia alle vittime”.

Il prete che abusò di lei aveva dei precedenti?

“Certo. Nel 1980, lo stesso anno in cui prese i voti, abusò di un ragazzino. Venne spostato a Spotorno, dove vivevo anch’io, è lì continuò ad abusare di ragazzi, tanti miei coetanei, me compreso. Malgrado nel paese si chiacchierasse molto di quello che faceva il sacerdote, il vescovo ebbe la brillante idea di fargli aprire una comunità per minori in difficoltà. Una pratica che abbiamo riscontrato in altri casi: i preti pedofili spesso vengono messi a contatto con minori che si presume siano più deboli, più in difficoltà, e quindi molto meno propensi a denunciare”.

Quando ha denunciato per la prima volta pubblicamente quello che le era successo?

“Molto tardi, nel 2009. E’ una questione di consapevolezza. Perché si denuncia dopo tanti anni? A un certo punto della tua vita ti rendi conto che le problematiche che hai da adulto sono causate da quello che ti è successo da piccolo”.

La Chiesa di papa Bergoglio sta facendo di più per combattere la pedofilia?

“Purtroppo sono costretto a dire di no. Nonostante tutti gli appelli, i provvedimenti presi sono sempre a tutela della Chiesa stessa. Noi abbiamo più di 500 vittime in associazione: non vediamo nessun aiuto alle vittime, nessun risarcimento, nessun atto concreto. Ci sono solo delle promesse: ‘Non succederà più’. Ma queste promesse le sentiamo dai tempi di papa Wojtyla. Gli spostamenti dei preti pedofili da una parrocchia all’altra continuano ad esserci. Restando sempre ad Albenga, c’è un altro caso clamoroso, quello di don Luciano Massaferro. Anche lui ha scontato il carcere, condannato a 7 anni e 8 mesi per molestie sessuali su una bambina, è tornato a casa, fa ancora il sacerdote. Insomma, i buoni propositi andrebbero applicati, ma ancora non è così”.

  • Autore articolo
    Alessandro Principe
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