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“Alfie Evans non può essere salvato”

Tom Evans, il padre del piccolo Alfie

Il caso del piccolo Alfie Evans continua a dominare la stampa britannica e quella italiana e il dibattito che si è creato attorno a una vicenda così delicata si sta basando, in molti casi, su informazioni non corrette e su speranze che hanno ben poco di fondato.

Luigi Ambrosio e Gianmarco Bachi, durante la trasmissione “Il Demone del Tardi“, hanno intervistato oggi Carlo Alberto Defanti, primario emerito di neurologia dell’Ospedale Niguarda di Milano e fondatore della Consulta di Bioetica, che ha smontato le false credenze di chi crede che il piccolo Alfie si possa salvare.

Da un punto di vista scientifico, lei come commenta un argomento questa vicenda, cioè che “ad Alfie è negato il diritto di muoversi e perfino di vivere“?

Naturalmente questo commento non ha nulla a che fare con la scienza. Dal punto di vista scientifico le cose sono purtroppo abbastanza chiare. Questo bimbo ha una malattia degenerativa in fase avanzatissima, una malattia strana perchè non è stato possibile fare una diagnosi precisa, però si sa che gran parte del suo cervello è distrutto, non ha nessuna possibilità di sopravvivenza se non per qualche tempo assistito con il ventilatore, cioè fatto respirare artificialmente. I medici dell’ospedale si sono resi conto che a questo punto non è nell’interesse del bambino esser tirato avanti in questo modo. Questo configura proprio il modello del cosiddetto accanimento terapeutico. Il bambino è l’unico in Europa a non sapere nulla del suo caso, non ha nessuna possibilità né di percepire né di comunicare. L’unico dubbio che si può avere, e che giustamente i medici inglesi hanno, è che possa avere qualche senso di dolore o di sofferenza ed è per questo che viene anche sottoposto ad adeguate cure palliative. Si può ben capire che i genitori non vogliono ammettere e non vogliono abbandonare la speranza, ma purtroppo la situazione è questa.
Poi su questo dato ineliminabile si innesta una battaglia ideologica assurda con richiami all’eugenetica o l’eutanasia nazista, che non ha davvero alcun senso.

Abbiamo sottolineato più volte il diritto da parte dei genitori a qualunque tipo di speranza, ma altra cosa è la speculazione che appartiene a quel movimento Pro-Life che si è creato attorno alla figura di un bambino veramente sfortunato. Le notizie di cronaca ci dicono che la Corte d’Appello inglese ha respinto il ricorso presentato dai genitori, il padre ha minacciato di denunciare tre medici dell’ospedale che si occupano del figlio per cospirazione finalizzata all’omicidio. Le speranze dei genitori sono state alimentate, ad esempio, anche dall’ospedale Bambin Gesù di Roma. Perché un ospedale come quello dice questa cosa ai genitori del bambino?

Questo succede perchè ormai su un dato tragico di realtà si è innestato lo scontro che ogni tanto emerge tra la vita e contro la vita. La Chiesa offre questo suo ospedale, che non ha niente di più o di diverso dall’ottimo ospedale inglese in cui il bambino si trova. Il governo addirittura ha fatto una mossa incredibile di dare la cittadinanza italiana a questo bambino, quando non viene data ai ragazzi africani e non che sono qui da 20 anni. È una cosa che grida vendetta devo dire.

L’ospedale Bambin Gesù fa questa cosa per le ragioni che lei ci ha spiegato, ma da un punto di vista medico che cosa potrebbero fare di più o di diverso?

Nulla, salvo continuare la ventilazione meccanica. Questo bambino non è più in grado di respirare autonomamente se non per certi periodi, e questa sua capacità di farlo autonomamente andrà affievolendosi col tempo fino a portarlo comunque alla morte. Ora se la ventilazione viene proseguita, probabilmente la sopravvivenza del bambino sarà un po’ più lunga, ma questo non significa salvarlo. Questa è la situazione tanto deprecata da tutti e poi invece praticata in questo caso e non solo, dell’accanimento terapeutico, di fare qualcosa che non è nell’interesse del bambino. Io ho letto ieri la sentenza della Corte Suprema britannica, una lunga sentenza bene argomentata con tutti i pareri e, tra l’altro, anche gli esperti del Bambin Gesù sono stati consultati sul caso e non c’è nessuna discrepanza sul fatto che la prognosi sia comunque infausta. Su questo non ci sono questioni. L’unica discrepanza tra gli esperti internazionali è stata quella di un collega tedesco che, pur confermando la stessa situazione scientifica, ha detto che la sospensione del trattamento in Germania è una cosa che fa pensare a quel passato terrificante della soppressione dei deboli mentali nei primi anni durante la guerra.

Un’ultima cosa: da un punto di vista puramente ideologico, questo caso somiglia molto a quello di Eluana Englaro.

Sì, per certi aspetti sì. Qui c’è in più il fatto del bimbo, il senso di compassione è ancora maggiore, ma il caso è simile. La differenza fondamentale è che Eluana era una persona cosciente, intelligente e che, anche se non aveva redatto un testamento biologico, in forma verbale lo aveva fatto e la Corte d’Appello di Milano aveva dato atto di questo. Eluana aveva una preferenza, mentre il piccolo Alfie non era e non sarebbe mai stato in grado di dire “io voglio smettere” e quindi di fatto bisogna deciderlo per lui. La differenza è questa, tra una decisione presa dal paziente stesso per un futuro in cui non potrà più prenderla e una decisione presa in questo caso dai genitori o dai medici in favore del malato. Nella letteratura bioetica si parla in questi casi di “best interest“, di migliore interesse. E i medici dell’ospedale di Liverpool hanno agito in questo senso e sono stati confermati in questo dalle autorità.

Tom Evans, il padre del piccolo Alfie
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    Il 7 dicembre la Scala apre la stagione con l’opera censurata da Stalin

    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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