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Boom di spose bambine nelle zone di crisi

Si stima che nel mondo oggi vivano 700 milioni di persone coniugate precocemente. Saranno un miliardo e 200 milioni nel 2050 se le campagne di contrasto in corso non saranno efficaci.

Esteri ha intervistato Patrizia Farina, docente di demografia dei Paesi poveri, Dipartimento di sociologia e ricerca sociale, all’Università Bicocca di Milano.

Dove è diffuso il fenomeno?

Soprattutto nei Paesi poveri, in particolare nell’Africa sub sahariana. Per esempio in Niger il 76% delle donne coniugate si è sposata prima dei 18 anni; percentuali simili si osservano in Ciad, nella Repubblica centrafricana e in molti altri Paesi dell’Africa. In Pakistan, la proporzione è del 21%, relativamente bassa e comunque meno elevata rispetto a Bangladesh o India.

È però necessario tenere presente che quella che a noi appare età precoce lo è meno in questi Paesi perché le transizioni allo stato adulto dei giovani nati nei Paesi poveri sono molto più rapide rispetto alle nostre e quindi “18 anni” può essere un’età a cui si associano responsabilità importanti come il matrimonio. Anche così però la pratica punisce chi la subisce perché normalmente il partner non è scelto da chi si deve unire.

L’aspetto più tragico però riguarda le spose bambine sradicate dalla famiglia, dalla scuola e dal proprio contesto, esposte al rischio di maternità con gravi complicanze di salute. Per esempio, sempre in Niger, il 30% delle spose ha meno di 15 anni, in Chad il 29% così come nella Repubblica Centrafricana, solo il 3% in Pakistan.

Perché è diffuso?

Il fenomeno è davvero complesso: la povertà, la mancanza di istruzione, le pratiche culturali e l’insicurezza delle famiglie alimentano la pratica. Alla base però ci deve essere la convinzione che le bambine siano meno preziose dei bambini, ci deve essere cioè discriminazione. Le bambine spesso sono considerate un fardello per la famiglia perciò sposare la figlia a un’età molto giovane può essere visto anche come un modo per ridurre le avversità economiche, trasferendo l’onere alla famiglia del marito.

Detto così i genitori sembrano mossi da avidità

Ricordate la storia di Pollicino? Amorevoli genitori hanno tentato ben due volte di abbandonare i figli nel bosco a causa della povertà.

Il fatto è che per milioni di persone povere il matrimonio delle bambine può essere la migliore o l’unica opzione. In un certo senso, dove la povertà è veramente acuta, le famiglie credono che il matrimonio assicuri cibo e sopravvivenza alla figlia. Non è un caso che il matrimonio precoce aumenti nelle zone di crisi prodotte da un conflitto o da un disastro naturale: in Siria per esempio nel 2011 erano il 12%, sono saliti al 32% nel 2014.

Si diceva che il fenomeno riguarda soprattutto le giovani e le bambine (l’86%).

Dare una figlia in sposa molto presto consente ai genitori di avere una persona in meno da nutrire, vestire ed educare. Fanno una scelta, ed essendo le bambine di minor valore rispetto ai bambini, a parità di tutto il resto vengono sacrificate loro. Peraltro questo si riflette positivamente per i figli rimasti che possono godere del risparmio generato dalla partenza della sorella e negativamente per le bambine che interrompono il percorso di crescita (scuola prima di tutto) e hanno meno opportunità di scelta di vita.

La comunità internazionale e le iniziative.

Le agenzie internazionali da qualche anno hanno nel mirino questo tema e agiscono in favore della riduzione della discriminazione, dunque ci vorrà tempo. Va detto che sono encomiabili anche le molte iniziative partite dal basso, principalmente dalle associazioni femminili che si oppongono alla negazione della libertà di scegliere quando e a chi unirsi, reclamando in definitiva il rispetto di un diritto umano.

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    Gli accampamenti alla Columbia University contro i fondi per Israele in un documentario

    Kei Pritsker, regista con Michael T Workman del documentario “The Encampments”, racconta ai microfoni di Radio Popolare i retroscena della protesta studentesca pro Palestina alla Columbia University. “Gli studenti della Columbia protestano da anni per la Palestina e per ottenere che l’università dismetta gli investimenti in Israele – spiega Pritsker. L’università ha un ingente fondo di dotazione che investe in ogni sorta di attività, molte delle quali riguardano aziende produttrici di armi, aziende manifatturiere che realizzano armamenti, motori per elicotteri, bulldozer e ogni tipo di attrezzatura utilizzata in queste operazioni”. “The Encampments” fa parlare i ragazzi e le ragazze di questo movimento studentesco che dall’aprile del 2024 ha montato le tende nel giardino del Campus per chiedere trasparenza, il ritiro del denaro dagli investimenti israeliani e l’amnistia per gli studenti puniti per le proteste. “Chiunque creda ancora a questa narrativa sull’antisemitismo nel movimento per la Palestina dovrebbe semplicemente guardare il film – assicura Kei Pritsker”. Al momento “The Encampments” ha una distribuzione indipendente che lo diffonde nei cinema più coraggiosi. L'intervista di Barbara Sorrentini per la trasmissione Chassis.

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