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Economia in transizione, la versione della Chiesa

Da diverse anni due riviste dell’Arcidiocesi dell’Avana, il mensile Palabra Nueva e il trimestrale Espacio Laical, di taglio più nettamente politico, svolgono un ruolo molto importante nel dialogo tra la Chiesa e il governo cubani e come pulpiti da cui possono essere proposti punti di vista indipendenti. Palabra Nueva è nata nel 1992, e dal 2005 è affiancata da una edizione digitale. Il direttore Orlando Márquez Hidalgo, un laico, ci riceve nel suo ufficio al Centro Padre Felix Varela, che ha sede a due passi da Plaza de la Catedral, in un nobile palazzo che occupa per un ampio tratto il fronte dell’Habana Vieja verso l’imbocco della baia dell’Avana. Nell’elegante patio con loggiato dell’edificio, delle targhe citano passi di Cecilia Valdés, ottocentesca pietra miliare della letteratura cubana, contenenti riferimenti all’edificio.

Come è cambiata la situazione della Chiesa a partire dalla visita di Papa Wojtyla e dall’inizio del dialogo con il governo?

La visita di Giovanni Paolo II per la Chiesa cubana è stato certamente l’evento più importante di tutto il secolo scorso. Era la prima volta che un Papa veniva a Cuba, e nelle circostanze di Cuba: l’unico Paese latinoamericano mai visitato da un papa, e un Paese che continuava a seguire nell’essenza il modello sovietico, anche se aromatizzato dai tropici, con un suo sabor particolare. Dopo la rivoluzione la Chiesa si era trovata in condizioni abbastanza cattive: diminuito il numero dei sacerdoti, attività di assistenza sociale molto limitata, niente più scuole né ospedali, salvo uno per malati di mente, il tutto all’interno di una società in cui veniva propugnato l’ateismo, guardando alla religione come a qualcosa che si doveva superare. Ma la Chiesa aveva cominciato ad uscire da questa specie di clausura già diversi anni prima della visita del Papa, con l’Incontro ecclesiale cubano, di cui stiamo festeggiando i trent’anni.

Dal Consiglio episcopale latinoamericano che si era tenuto a Medellin nel ’68 e poi a Puebla nel ’79 era emersa l’opzione preferenziale per i poveri in America Latina: un discorso che qui non poteva avere molta presa, perché non esistevano le situazioni di povertà estrema che c’erano nel resto del continente. Il programma sociale attuato dopo il ’59 aveva prodotto dei grandi progressi in termini di educazione, sanità, eccetera, e questo metteva la Chiesa in una condizione diversa; così i vescovi decisero di fare una sorta di Puebla per Cuba, di riunione per sviluppare una specifica pastorale per Cuba, che fu appunto l’Incontro ecclesiale cubano dell’86, che puntò a rompere le barriere che circondavano la Chiesa e a rimetterla in contatto con la società. Quindi quando arriva Giovanni Paolo II c’è già un cammino che la chiesa a Cuba aveva percorso, che, per quanto piccolo, era molto importante, anche per preparare la visita del Papa.

Che rappresentò una svolta…

Avrebbe dovuto esserci una visita di Giovanni Paolo II già nel ’91, ma fu rinviata dal governo. Finalmente nel ’98 la sua presenza, i suoi cinque giorni a Cuba, segnarono certamente la rinascita della Chiesa cubana. La vita della Chiesa cominciò ad essere vista sia da parte della Chiesa stessa che da parte della società come qualcosa di normale, la Chiesa come una parte della società, e certo questo per effetto della visita del Papa, che in maniera molto chiara ne difese i punti di interesse, sia sul piano religioso che su quello del desiderio dei cattolici di impegnarsi nella società. Le visite di Benedetto XVI e poi di Francesco hanno proseguito su questa linea, di una connotazione non solo religiosa. Giovanni Paolo II disse una frase che pur non realizzandosi nell’immediato rimase sempre viva: “Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba”.

Quando se ne andò, sull’aereo un giornalista gli chiese che cosa sperava dalla sua visita, e il papa rispose con una frase molto italiana: “chi vivrà vedrà”. Lui stesso forse non sperava di vederlo. Poi quando venne qui nel 2012 Benedetto XVI disse che a Cuba era iniziato un processo di riforme, e che la Santa Sede e la Chiesa cubana volevano accompagnarlo. E con l’arrivo, in continuità con Giovanni Paolo II, di Francesco, abbiamo visto che Cuba è molto più aperta al mondo e il mondo molto più aperto a Cuba, e che la Chiesa, per quanto sempre piccola, è molto partecipativa, basti pensare al ruolo che Francesco e la Chiesa cubana hanno svolto nel miglioramento delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti.

Nei primi mesi del 2010 Palabra Nueva prima pubblicò una impietosa diagnosi della economia cubana di un sacerdote-economista, che segnalava anche come la sfiducia stesse diffondendosi; poi una intervista con il cardinale Ortega, che segnalava che la necessità di rapidi cambiamenti era ampiamente condivisa all’interno della società cubana, e che il ritardo nell’affrontarli stava producendo una crescente insofferenza. Allora potevano sembrare delle mosse azzardate: adesso potremmo dire che la Chiesa ha anticipato e sollecitato le riforme di Raul Castro.

Ma molto prima di questo, la Chiesa, i vescovi, in lettere pastorali e pubblicazione avevano già parlato dell’esigenza di cambiare certe strutture, certi paradigmi, della società cubana, di ordine economico, sociale e anche politico. Nel ’93 i vescovi resero pubblico un documento che si chiama El amor todo lo espera, da una frase di San Paolo (“La carità (…) tutto spera”, Prima lettera ai Corinzi, ndr), in cui si chiedevano questi cambiamenti, maggiori opportunità e spazi di libertà per la popolazione, e un “dialogo nazionale”. Anche se non sono ancora arrivate fino dove possono arrivare, le riforme che stiamo vedendo erano state auspicate dalla Chiesa da molti anni. Per questo l’atteggiamento della Chiesa è quello di animare il processo, di accompagnarlo, di partecipare. Per esempio in varie diocesi di Cuba si stanno tenendo corsi per i nuovi imprenditori, offrendo strumenti che consentano loro di sviluppare le loro piccole imprese familiari. Qui all’Avana abbiamo un programma patrocinato dalla diocesi, Cuba imprende, in cui si insegna marketing, contabilità, formazione del personale. La Chiesa vuole contribuire a preparare i cubani per il momento attuale, e per il futuro.

E’ un problema anche di formazione di una nuova classe dirigente, che non sia solo quella interna al Partito?

No, la Chiesa non opera in questa direzione, perché la questione politica a Cuba continua ad essere molto chiusa.

Intendevo classe dirigente in senso lato…

Certo, capisco benissimo. Ma formare persone che possano intervenire nella vita politica del Paese non è nei propositi della Chiesa. Fino a questo momento le riforme sono sul piano economico, piccoli passi, dei grandi passi si devono ancora vedere, mentre per ora il governo non ha prospettato trasformazioni sul piano politico. Anche se… Le riforme economiche avranno inevitabilmente una incidenza nella vita politica del Paese. Però per adesso si mantiene ancora un solo partito. D’altra parte in questo momento quello che più interessa alla maggioranza dei cubani è uscire dalla crisi economica nella quale si trovano, ed essere padroni della propria vita, nel senso di non essere troppo dipendenti dalla precarietà del giorno per giorno, senza sapere se domani avranno abbastanza soldi per mangiare. Quello che è iniziato è un processo, non ancora sufficiente ma positivo, e sono convinto che alla lunga arriveranno altre trasformazioni, non solo di ordine economico ma forse anche di ordine politico: penso che sia naturale.

Che problemi incontra il processo delle riforme?

Chi ha avviato le riforme è il governo successivo a quello di Fidel Castro: è Raul Castro che ha sviluppato un piano di riforme con i Lineamientos de la Politica Económica y Social del Partido y la Revolución approvati dal VI congresso del Partito nel 2011. Ma questi Lineamenti avrebbero dovuto essere tradotti in pratica prima del VII congresso che si terrà in aprile: mentre in realtà sono operativi solo per circa il 20 per cento. Il che significa che il processo è stato molto più lento di quanto si sperava.

Le ragioni possono essere molte, ma la mia impressione è che la causa fondamentale risieda proprio nella centralizzazione politica di un governo di questo tipo, perché malgrado queste riforme, la struttura, l’essenza, il modello, la concezione della società continuano ad essere di tipo centralizzato, statalista, di impronta stalinista e sovietica. Dunque è molto difficile procedere. Io capisco che si voglia evitare lo straripamento, quello che è successo nei Paesi dell’Europa dell’est o in Cina, dove è arrivato un capitalismo molto duro, e che il governo non desideri che le differenze tra chi ha mezzi e chi non ne ha si allarghino troppo: però una cosa è sforzarsi di accompagnare i più bisognosi, e un’altra è porre ostacoli a chi vuole spingersi in avanti ed è in condizione di farlo.

Per esempio la nuova legge sugli investimenti: i cubani, quelli che vivono a Cuba, non hanno il diritto di partecipare agli investimenti a Cuba, mentre può farlo un cubano che vive all’estero, e questo mi pare discriminatorio e ingiusto. E’ possibile che qui non ci siano dei gran milionari, ma ci sono persone che possono unirsi, mettere insieme un capitale, investire e partecipare alla vita del paese. Ma c’è un grande timore – ecco la questione politica che è il freno – che si sviluppino figure di capitalisti a Cuba. Peraltro tutto questo mi pare molto naturale, perché si tratta di un sistema che è molto difficile riformare dal di dentro, e d’altro canto quello che si vuole fare è proprio trasformarlo da dentro. Credo che la prospettiva debba essere quella di una maggiore decentralizzazione, di leggi giuste, di uno stato di diritto pieno, della trasparenza economica da parte dello stato, tutte cose abbastanza sconosciute a Cuba; e di dare la possibilità di investire anche ai cubani, e di consultare sempre i cubani.

Come diceva, lo stato deve aiutare chi rimane più indietro, che in definitiva è lo stesso compito della Chiesa… Cosa sta facendo la Chiesa per venire incontro alla sofferenza economica e sociale?

La Chiesa cerca, come le autorità, di aiutare i più sfavoriti, ma la sua attività assistenziale è molto limitata, perché la Chiesa qui ha sì una personalità giuridica, ma non abbastanza robusta da darle una possibilità di azione autonoma forte. Per esempio se vuole importare qualcosa deve farlo sempre attraverso imprese statali, e può succedere che si senta rispondere che non è possibile. Quindi al momento l’assistenza si limita – il che peraltro è già buono – per esempio alle mense, che molte parrocchie organizzano in particolare per gli anziani, perché in una situazione come questa e in un paese che sta invecchiando molto, gli anziani sono più sfavoriti.

Come si può notare anche solo girando per strada…

Esattamente. Qui non abbiamo la povertà che si può incontrare ad Haiti, a Santo Domingo o in Salvador, però la povertà c’è e ci sono persone molto bisognose, e forse un altro tipo di povertà che è più paradossale, la povertà del medico, dell’ingegnere, del professionista, perché i salari sono insufficienti, e un taxista guadagna più di un medico.

Lo stesso presidente Raul Castro, due-tre anni fa ha fatto un appello per il recupero dei valori, perché in questa società si è perso molto in termini di valori, e ha invitato le istituzioni religiose a partecipare anche a questo. Bene: ma non ci sono ancora condizioni adeguate perché questo avvenga. Le relazioni tra la Chiesa e lo Stato cubano si danno ancora attraverso la Oficina de asuntos religiosos del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba, del suo dipartimento ideologico, con appunto un approccio ideologico che risente ancora della visione della chiesa come una entità minacciosa.

Adesso il governo ha cominciato a restituire alcune chiese che erano utilizzate diversamente, ma per esempio la Chiesa continua a non avere accesso ai media cubani. D’altro canto credo che ci sia anche una simpatia, c’era anche all’epoca di Giovanni Paolo II, quando Fidel Castro elogiava il discorso del Papa contro il neoliberismo. E in una società come questa che ha attaccato molto le ingiustizie c’è sintonia con Bergoglio, un Papa latinoamericano che a Buenos Aires ha toccato con mano la miseria, e che fa della questione della povertà un asse del suo pontificato: ma Bergoglio non cessa anche di difendere la libertà dell’essere umano in tutti i suoi aspetti. Il dialogo di questi anni è stato molto positivo, ma credo che debba istituzionalizzarsi, perché il giorno che le persone con cui dialoghiamo non ci fossero più, se non si sono create le basi perché questo dialogo continui, ci si ferma.

Raul Castro sembra aver attribuito alla relazione con la Chiesa una valenza piuttosto strategica, e questa scelta è stata ripagata da buoni risultati…

Sì, è possibile che per Raul si sia trattato di una relazione abbastanza strategica. Ma quando ci fu la liberazione dei prigionieri, fu la Chiesa che scrisse a lui: il cardinale gli scrisse per dialogare su questo problema, e lui accettò il dialogo. Quando invece il Papa inviò lettere al presidente Obama e al presidente Raul Castro, è possibile che il suo intervento sia stato decisivo, ma in realtà loro stavano già conversando da prima. Raul Castro stava già lavorando sulle relazioni di Cuba col mondo, cercando soluzioni non solo con gli Stati Uniti, evitando che Cuba – che ha vissuto l’esperienza dell’Unione Sovietica – diventasse dipendente dal Venezuela, articolando rapporti con l’Asia, l’Africa e l’America latina, cercando l’accordo finanziario con il Club di Parigi: Raul Castro stava già cercando di mettere ordine, e di normalizzare la situazione di Cuba.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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