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120 anni fa Gaetano Bresci uccideva il re d’Italia Umberto I

Gaetano Bresci

Sono passati 120 anni dall’omicidio del re d’Italia Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. Ci siamo fatti raccontare questa vicenda dal giornalista e scrittore Paolo Pasi, autore del libro “Ho ucciso un principio. Vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re“, edito da Eleuthera.

L’intervista di Alessandro Braga a Prisma.

Gaetano Bresci era un personaggio chiave dei suoi tempi, un operaio tessile specializzato che aveva consolidato la sua formazione politica a Prato. Specchio delle forti disuguaglianze sociali dell’Italia di fine ‘800 e costretto, dopo aver lavorato nei fabbriconi di Prato ed aver lasciato anche tracce del suo passaggio nei registri sopravvissuti a un incendio, a conoscere tutto il lato disumano del lavoro nelle fabbriche tessili, che impiega molto il lavoro femminile e dei minori. Donne e ragazzi che vivono nel costante frastuono della fabbrica, di questa voce che in qualche modo strappa le persone alla loro vita. Gaetano Bresci ad un certo punto decide di emigrare negli Stati Uniti e si stabilì a Paterson, nel New Jersey, dove c’era una folta comunità, non solo di italiani, ma di anarchici. Erano circa un migliaio, quella era la tiratura dei giornali anarchici di Paterson. Arriva negli Stati Uniti con una solida formazione da autodidatta, come nelle biografie di tanti anarchici, e lì riesce anche a costruirsi un suo nucleo familiare conoscendo una operaia tessile di origine irlandese ed avendo con lei una figlia. Cosa colpisce della vicenda umana di Bresci, che decide di tornare in Italia quando era ancora molto giovane? Colpisce il fatto di non aver mai reciso un legame con l’Italia, come tanti altri anarchici, e di aver scelto di emigrare come una sorta di esilio per l’insostenibilità delle condizioni sociali in Italia in quel periodo. Ma gli anarchici italiani guardano sempre alla penisola e ai suoi drammatici accadimenti. Uno di questi, a parte i moti repressi in Lunigiana, sono le cannonate di Bava Beccaris sulla folla disarmata a Milano nel maggio 1898. Questo fatto colpisce molto anche Bresci. Il responsabile morale viene ritenuto Umberto I, perché Bava Beccaris verrà insignito dal Re di una medaglia per alti meriti verso la civiltà. Da questo momento, anche attraverso un carteggio che è custodito nel Museo Criminologo di Roma, si capisce che Bresci inizia a pianificare il suo ritorno in Italia con almeno un anno di anticipo per vendicare i morti dei Moti di Milano.
Nel libro, che ha una struttura quasi narrativa, si segue la partenza in piroscafo, lo sbarco in Europa e la permanenza di qualche giorno a Parigi e il ritorno in Italia, prima dai suoi parenti a Prato e poi a Milano tre giorni prima di colpire, il 29 luglio 1900, quando sul campo di una società sportiva di Monza, Bresci decide di sparare quattro colpi di pistola a Re Umberto I, tre dei quali vanno a segno. Nell’immediato, sottratto al linciaggio, nell’interrogatorio pronuncia la frase “non ho inteso uccidere una persona, ma ho inteso uccidere un principio, quello di autorità“.

Quella frase rende Gaetano Bresci un’icona ancora più forte.

Sicuramente Bresci diventa un simbolo, suo malgrado mi verrebbe da dire. Con questo gesto consegna totalmente la sua vita e la recide. Da quel momento in poi, dall’arresto, Bresci non vedrà più nessuno. Verrà tenuto in isolamento per mesi fino ad arrivare alla morte nel carcere sull’isola di Santo Stefano. Certamente il simbolo deriva dell’eco incredibile che ebbe questo gesto, perché il Re era ancora ammantato di un’aura sacrale. I commenti dei giornali furono ferocissimi. L’idea che qualcuno avesse ucciso un Re portò le colonne del Corriere Della Sera ad invocare il linciaggio per Bresci, la folla avrebbe dovuto farli a brami. Fu un gesto così eclatante che ne parlò anche Tolstoj che, in un saggio intitolato “Non uccidere”, scriveva: “ma voi vi indignate per uno che ha ammazzato un sovrano quando ci sono sovrani che mandano a morire migliaia di persone?“. Ecco cosa ha fatto diventare Gaetano Bresci un simbolo: l’essersi assunto la piena responsabilità del suo gesto che, in qualche modo, segnò l’apice di quella che potremo definire la propaganda del gesto del singolo. L’inizio del secolo ci porta gradualmente a consolidare più i passaggi organizzativi ed accantonare questo tipo di azioni singole.

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    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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