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Libia, uccisi due ostaggi italiani

Sono morti due dei quattro italiani rapiti lo scorso luglio in Libia nella zona di Sabrata, mentre erano in viaggio verso l’impianto petrolifero di Mellitah. I quattro sono dipendenti della ditta di costruzioni Bonatti di Parma. Il ministero degli Esteri ha diffuso questo comunicato che mostra prudenza, in assenza di prove definitive per il riconoscimento dei corpi, ma anche una ragionevole certezza sull’identità delle due vittime:

“Relativamente alla diffusione di alcune immagini di vittime di sparatoria nella regione di Sabrata in Libia, apparentemente riconducibili a occidentali, la Farnesina informa che da tali immagini e tuttora in assenza della disponibilità dei corpi, potrebbe trattarsi di due dei quattro italiani dipendenti della società di costruzioni ‘Bonatti’. Precisamente di Fausto Piano e Salvatore Failla. Al riguardo la Farnesina ha già informato i familiari. Sono in corso verifiche rese difficili, come detto, dalla non disponibilità dei corpi”.

Piano e Failla, con Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, erano stati sequestrati nella stessa zona in cui sono stati trovati i corpi delle vittime della sparatoria. Ancora non è noto chi li avesse prelevati, ma sembra che – forse in un secondo momento – fossero finiti in mano a formazioni dell’Isis. Da capire anche chi siano stati i protagonisti degli scontri in cui nelle scorse ore i due dipendenti della Bonatti sarebbero rimasti uccisi. Con ogni probabilità i miliziani dell’ Isis che li avevano in custodia hanno dovuto affrontare le milizie di Sabrata, che nelle ultime settimane ha cercato di riprendere il controllo della città.

È dunque presumibile che, in un tentativo di fuga dalla città, gli uomini del Califfo siano stati intercettati dai miliziani locali (forse nei pressi di Surman) e ne sia nata la sparatoria costata la vita ai due ostaggi.

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    Violenza: riprendersi il potere sulla propria vita

    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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