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Leaving Neverland: Il documentario su Michael Jackson

Leaving Neverland, Michael Jackson

La celebrità è accecante, le accuse non sono nuove, l’imputato è già stato assolto al termine di un processo, eppure un documentario trasmesso in tv sembra cambiare ancora una volta tutto. È successo, in modo assordante, con Leaving Neverland, il doc su Michael Jackson in onda in Usa a inizio mese, e che ora arriva anche in Italia, su NOVE, il 19 e 20 marzo.

Protagonisti di lunghe interviste, James Safechuck e Wade Robson, che raccontano – con profusione di dettagli e il sostegno delle rispettive famiglie – come divennero amici di Jackson, tra gli anni 80 e 90, quand’erano bambini, e la loro relazione col cantante: lo stupore davanti al lusso sfrenato e a una sorta di potere magico che permette di ottenere tutto in un istante, il rapporto profondo col musicista, fatto di telefonate a ogni ora, regali, viaggi, tanto tempo passato insieme, e infine gli abusi sessuali di cui Jackson li avrebbe resi vittima, e per cui è stato già dichiarato non colpevole in due processi.

Non ci sono nuove prove, in Leaving Neverland, se non confessioni dettagliate, corroborate da amici e familiari, fotografie, oggetti: eppure ha scatenato azioni estreme, con alcune radio canadesi e neozelandesi che decidono di non trasmettere più i brani di Jacko, il creatore dei Simpson che “cancella” dalle repliche la puntata in cui la star fece un cameo, luoghi pubblici che scelgono di rimuovere statue del re del pop. E, naturalmente, dall’altro lato della barricata, i fan che organizzano azioni innocentiste come fossero adepti di un culto, e gli eredi di Jackson che intentano cause legali.

Qualche mese fa, per la precisione a inizio gennaio, un’altra serie documentaria aveva messo sotto sopra il mondo della musica: si tratta di Surviving R. Kelly, che il canale Crime+Investigation manda in onda in Italia dal 18 marzo col titolo R. Kelly – Vittime di una popstar. R. Kelly è meno famoso di Jackson solo in Europa, negli Stati Uniti è un’icona afroamericana celebre per hit r’n’b come I Believe I Can Fly: è accusato da moltissime donne, tutte giovanissime se non minorenni all’epoca dei fatti, di aver abusato di loro, sia sessualmente sia psicologicamente, minacciandole e rendendole prigioniere di quella che i media non hanno esitato a definire una “setta del sesso”. Anche R. Kelly è già stato processato in passato, per pedopornografia e abusi su minori, e assolto: ora, però, dopo la messa in onda del documentario che raccoglie decine di testimonianze dirette di presunte vittime, la contea di Cooke l’ha rimesso sotto inchiesta. Il suo caso è diverso da quello di Jackson, ovviamente, in primo luogo perché Kelly è ancora vivo (e capace di rilasciare interviste, come ha fatto recentemente per la CBS con un risultato tanto imbarazzante da trasformarlo in zimbello), e dunque ci si può auspicare un percorso e un verdetto legali.

Certo non è compito dei documentari emettere condanne, ed è importante ricordare che le narrazioni televisive – anche e soprattutto quando si mascherano di autenticità – sono sempre espressione di un punto di vista, mai imparziali. Eppure quel che più colpisce di queste storie è l’enorme impatto emotivo che una confessione a cuore aperto, a favor di telecamera, può suscitare nella percezione collettiva (quando, per esempio, le ragazze che negli anni hanno denunciato R. Kelly sono state spesso ignorate, chissà se perché sono tutte nere): quasi fosse l’altro lato della medaglia dello stesso culto della celebrità che per decenni ha permesso a chi si trovava in una condizione di estremo potere di compiere, indisturbato, abusi.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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