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I Sioux: “Ora vogliamo rispetto”

Repressione poliziesca e di vigilantes privati, minacce, decine di arresti di Sioux e ambientalisti. E ora un’ordinanza di sgombero da parte del governatore del North Dakota del campo dove migliaia di persone stanno protestando da mesi contro la costruzione di un megaoleodotto. La situazione sta diventando sempre più tesa ed è diventata un caso internazionale.

Il governatore del North Dakota, Jack Dalrymple – riferisce l’agenzia Reuters – ha ordinato in questi giorni l’espulsione di migliaia di nativi americani e di attivisti ambientalisti accampati su una proprietà federale, vicino al progetto di oleodotto contro il quale si sta battendo.

Il governatore ha motivato l’ordinanza di sgombero del campo dei nativi di Oceti Sakowin sostenendo che è necessario farlo per i rischi legati alle rigide condizioni meteorologiche, freddo e neve in arrivo.

Dura la risposta del capo del Sioux Standing Rock, Dave Archambault II: “Se la vera preoccupazione è per la nostra salute e sicurezza allora il governatore dovrebbe smantellare il blocco e le forze di polizia della contea, dovrebbe smettere l’uso di granate accecanti, cannoni ad acqua in temperature gelide, gabbie per cani per temporanee prigioni per persone ed ogni armamento nocivo contro gli esseri umani”.

La polizia usa i cannoni con acqua gelida contro i Sioux
La polizia usa i cannoni con acqua gelida contro i Sioux

“La decisione del governatore – ha aggiunto Dave Archambault II – è mirata a spaventarci, a creare paura ed è uno sfacciato tentativo di aggirare l’autorità federale USACE (United States Army Corps of Engineers, una sorta di Genio militare, ndr) che ha dichiarato di non avere intenzione di rimuovere con la forza i nativi dalla proprietà federale”.

Standing Rock Sioux chiede che si fermi la repressione e ci sia “ rispetto per i nativi”.

I nativi americani della riserva Sioux di Standing Rock, sostenuti da organizzazioni ambientaliste, nazionali e internazionali, si stanno opponendo alla costruzione di un oleodotto sotterraneo di circa 2.000 chilometri che dovrà trasportare l’equivalente di mezzo milione di barili di petrolio al giorno fino al Illinois, attraversando anche il fiume Missouri. Un progetto da quasi 4 miliardi di dollari.

Oltre un centinaio di etnie native americane hanno inviato uomini e donne delle loro tribù per appoggiare i Sioux, occupando il territorio che si trova a circa un chilometro dal confine della riserva dove sono in corso gli scavi per l’oleodotto. Una protesta che è cresciuta, portando migliaia di persone nella zona, che è diventata un grande campo pacifico, formato da coloro che si definiscono “protettori dell’acqua”.

L'acqua è vita, rispetta la madre terra
L’acqua è vita, rispetta la madre terra

I perché della protesta. Oltre la distruzione di siti funerari dei loro antenati Sioux, luoghi considerati sacri dai nativi, il timore maggiore è che l’oleodotto, costruito vicino della principale riserva d’acqua su cui si basa la sopravvivenza dei Sioux, possa danneggiare la popolazione e l’ambiente nel caso di guasti.

Dal 2010 a oggi ci sono stati molti incidenti, oltre 150 sversamenti di petrolio dagli oleodotti che attraversano il Nord America e che hanno causato serie problemi ambientali. Nonostante questo la società incaricata della costruzione dell’oleodotto, la Energy Transfer Partners, di cui è azionista anche il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, continua a sostenere che il trasporto del petrolio con l’oleodotto è comunque più sicuro di quello ferroviario o automobilistico.

Nel frattempo il governatore del North Dakota, prima della recente ordinanza di sgombero, aveva decretato l’emergenza, inviando sul luogo, contro i nativi, un grande numero di poliziotti armati che hanno sparato pallottole di gomma, utilizzati spray urticanti, cannoni sonori, idranti e cani. In questi ultimi mesi sono state arrestate più di 150 persone. I nativi americani hanno dichiarato, anche in queste ore, l’intenzione di persistere nella protesta pacifica fino in fondo, con l’obiettivo di trovare una diversa soluzione rispetto al progetto attuale dell’oleodotto.

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    Flavia Mosca Goretta
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    L’ONU lancia l’allarme per Gaza: “Servono più aiuti”. Ma il valico di Rafah resta chiuso

    A Gaza resta in vigore il fragile cessate il fuoco concordato a Sharm el Cheik, ma l’intesa tra Hamas e Israele è costantemente minacciata da accuse reciproche di violazione degli accordi. Al centro delle tensioni con il governo di Tel Aviv ci sono soprattutto i 19 corpi degli ostaggi non ancora restituiti dai miliziani, e il disarmo dell’organizzazione palestinese. Hamas da parte sua accusa Israele di violare la tregua e denuncia che sui corpi dei palestinesi morti in carcere e riconsegnati da Tel Aviv ci sono evidenti segni di tortura. Resta grave la situazione umanitaria: le agenzie Onu affermano che nella Striscia entra una quantità ancora troppo esigua di aiuti umanitari, mentre l’organizzazione mondiale della sanità parla di una diffusione incontrollata delle malattie infettive. Intanto il valico di Rafah resta chiuso. Giovanna Fotìa, dell’Ong WeWorld, è la responsabile dei progetti per la Palestina.

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