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Quarant’anni fa calava il buio sull’Argentina

«Comunicato numero 1: Si informa la popolazione che da oggi, 24 marzo 1976, il Paese è sotto il controllo operativo della Giunta di Comandanti Generali delle Forze Armate».

Quarant’anni fa gli argentini si svegliarono con questo comunicato ripetuto a catena su scala nazionale dal primo mattino. Era la fine del breve ritorno alla democrazia del 1973 e l’inizio della notte più buia del Paese. Da qualche giorno si registravano movimenti anomali nelle caserme, e sui principali quotidiani uscivano inserzioni anonime che incoraggiavano i militari a prendere in mano i destini della Repubblica. Il governo di Isabel Martínez de Perón, la vedova del generale morto nel 1974, si dibatteva nel caos. All’alba del 24, come da copione golpista, furono occupate radio e televisioni, i carri armati presero possesso delle strade, la presidente venne arrestata insieme a ministri e dirigenti politici, mentre cominciavano a circolare carovane di macchine senza targa della polizia politica alla caccia di potenziali “sovversivi”: sindacalisti, operatori sociali, professori universitari, intellettuali, semplici cittadini impegnati in politica.

Correva l’anno 1976 e l’ondata di colpi militari che avevano posto fine alla democrazia in Brasile negli anni Sessanta, in Cile nel 1973, in Bolivia e in Paraguay arrivava anche in Argentina. Lo scenario globale era quello della Guerra fredda e l’America Latina era il “cortile di casa” politico ed economico degli Stati Uniti. Non erano permessi governi, anche se eletti democraticamente, che non fossero allineati con Washington in chiave anticomunista. Anche se di comunista, sotto l’ombrello di Mosca, all’epoca c’era solo Cuba. Ma in Argentina non si trattò di un golpe come tanti altri. Qui si volle sperimentare una nuova tecnica di controllo politico e di terrore: la desaparición, cioè la scomparsa fisica nel nulla degli oppositori. Una tecnica che paralizzava parenti e amici degli scomparsi e generava terrore. Molti anni dopo, il generale Jorge Rafael Videla dichiarerà che «se avessimo fucilato in piazza i sovversivi ci sarebbe stata un’ondata di indignazione contro il Paese». Infatti, l’indignazione internazionale arriverà molti anni dopo.

Tra i militari che andarono al potere c’erano diverse identità e diverse posizioni, dagli integralisti cattolici “crociati dell’Occidente” fino ai “politici” affiliati alla Loggia P2 di Licio Gelli. L’Argentina dei militari è stata anche il laboratorio sudamericano per le strategie già sperimentate dai francesi durante la Guerra d’Algeria. Erano tempi di giochi sporchi e di geopolitiche a geometria variabile, e per questo l’Urss non condannò mai la giunta di Videla, che diventò anzi alleata vitale di Mosca dopo l’embargo internazionale per l’invasione dell’Afghanistan. I militari argentini, infatti, coprirono il fabbisogno di alimenti dell’Urss quando gli altri Paesi occidentali si rifiutarono di continuare a vendere ai sovietici.

Con fatica e in ritardo, il mondo che nel 1978 partecipò ai Mondiali di calcio del regime cominciò a capire che, a pochi metri dagli stadi, si era consumato un dramma che aveva inghiottito trentamila persone e spinto altre decine di migliaia all’esilio. La vicenda dei desaparecidos venne alla luce in tutta la sua complessità solo a partire del 1982, e Sandro Pertini ebbe il merito di essere uno tra i primi leader politici a prenderne atto.

Ma la dittatura – che si sarebbe conclusa solo nel 1983 dopo il disastro della guerra contro il Regno Unito per il possesso delle isole Malvinas – non era solo repressione. Fu in quegli anni che sotto la guida di José Martínez de Hoz, il superministro dell’Economia, si accelerò sull’indebitamento estero e si posero le basi per la svendita del patrimonio pubblico, in un’orgia di corruzione. Due fenomeni alla base del default del Paese avvenuto nel 2001. L’Argentina dei primi anni Settanta era una potenza regionale con un livello di vita superiore a quello degli Stati dell’Europa mediterranea, Italia inclusa. L’argentina post-dittatura scivolerà fino a diventare un paria della comunità internazionale.

Il ritorno alla democrazia significò una primavera dei diritti a lungo calpestati, ma la frattura sociale determinatasi negli anni Settanta pesa ancora oggi come un macigno. Una volta c’era un Paese orgoglioso, con il più alto livello di istruzione, di welfare, di coesione sociale del continente. Quel Paese fu spezzato dalla barbarie in divisa. Le ferite sono ancora aperte, la giustizia ha funzionato solo parzialmente, e la democrazia rimane fortemente condizionata da un passato che fa fatica a diventare storia. La morale di questa vicenda dolorosa, a  quarant’anni di distanza, è che non può esistere nessun progetto salvifico al di fuori della democrazia. E che il Nunca Màs con il quale si è concluso il lavoro della Commissione incaricata di redigere il rapporto sulle sparizioni forzate non può essere davvero definitivo se la democrazia non è in grado di dare a tutti da mangiare, da studiare, da curarsi, da lavorare.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    Dopo il successo delle edizioni romane, l’R&B Takeover Fest approda per la prima volta a Milano, all’interno del calendario della Milano Music Week. "Volevamo creare un momento di condivisione per un genere che c’è sempre stato in Italia ma che è sempre stato snobbato dalla discografia”, spiega il direttore artistico e produttore Big Fish ai microfoni di Volume. Il Festival punta a dare voce a una nuova scena di artisti “che ha voglia di esprimersi lontano dalle dinamiche di mercato” ed è il primo in Italia interamente dedicato alla musica R&B e alle sue contaminazioni. Si partirà il 19 novembre con un panel pubblico dal titolo “R&B Takeover: L’Italia che vibra di R&B”, presso la Casa degli Artisti, per proseguire il 20 novembre con la serata dei live, condotta da Nina Zilli presso l'Apollo Club e con protagonisti Arya, Ghemon, Ste e Malasartoria. L'intervista di Elisa Graci e Dario Grande a Big Fish e Arya su radiopopolare.it

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