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“Potevo iscrivermi al liceo solo se mi convertivo”

“Era il giorno del mio compleanno, il 2 settembre, ricordo che mia madre aveva organizzato per me una festicciola, arrivò la telefonata della mamma di una mia amica, era disperata, perché gli studenti ebrei non avrebbero più potuto frequentare le scuole statali”.

Mirella Fiorentini ha novant’anni, lo sguardo attento e gli occhi azzurri luminosi, ricorda con precisione ogni dettaglio del giorno in cui capì che non sarebbe mai andata al liceo Mamiani a Roma, dove aveva già superato gli esami di ammissione.

Le leggi razziali del 1938, ottant’anni fa, cambiarono la vita di migliaia di studenti che furono espulsi dalle scuole medie e dai licei, costretti a nascondersi con le proprie famiglie e a frequentare scuole private o ebraiche.

“I miei genitori”, racconta Mirella Fiorentini che dopo la liberazione riuscì a laurearsi e insegnò per molti anni, “non si rassegnavano all’idea che noi non potessimo più studiare: bussarono a molte scuole private ma la risposta era una sola, potevo iscrivermi solo se mi convertivo alla religione cattolica.”

La signora Fiorentini ha saputo dell’idea della sindaca di Roma, Virginia Raggi, di cancellare i nomi delle vie intitolate agli scienziati che firmarono il Manifesto della razza. “Direi che è una buona idea, è stata una vergogna per loro e per noi”, e della proposta di intitolare alcune strade ai professori cacciati dalle università perché quel Manifesto non lo firmarono, la signora Mirella sostiene che ad alcuni una via è stata già intitolata per la loro fama internazionale, Segrè, Pontecorvo, Fermi tra gli altri, ma forse “non ci terrebbero nemmeno”.

La storia di Mirella Fiorentini è simile a quella di centinaia di famiglie ebree a Roma dopo il 1938, che subirono non solo l’allontanamento dalle scuole, ma anche la perdita del lavoro del padre. “Da un giorno all’altro fu cacciato dalla confederazione presso cui lavorava, si inventò un’altra occupazione, ma con un sentimento di umiliazione, come se non servisse più a nulla, se non fosse degno di essere italiano, eppure aveva combattuto quattro anni nella Prima guerra mondiale.”

Tante persone non riuscirono a sopportare quella umiliazione, nella famiglia di Mirella ci fu un suicidio.

Sfuggirono alle deportazioni del ’43 nascondendosi, un nascondiglio che nel caso di Mirella, assomiglia un po’ a quello della sua coetanea di allora Anna Frank: “Un primo datore di lavoro di mio padre, posso dire anche di chi si tratta, la Guida Monaci, mise a disposizione della nostra famiglia una parte dei suoi uffici, restammo lì nove mesi, arrangiati in qualche modo, perché negli uffici lavoravano”.

Il percorso scolastico di Mirella Fiorentini proseguì in altro modo: “Almeno non ho subìto l’umiliazione di essere espulsa dalla classe, come accadde a tanti ragazzi, avevo fatto l’esame di ammissione al Mamiani e poi non andai. Ho sentito la vicinanza delle mie amiche di allora, non avvertii il senso di isolamento ed esclusione. Per fortuna, alcuni esponenti della comunità ebraica affittarono un villino in via Celimontana, racconta ancora, e lo adibirono a scuola, di ogni grado, dalle elementari ai licei. Andò bene per me, perché in quelle scuole insegnavano ottimi professori cacciati dagli istituti statali”.

Furono migliaia gli studenti espulsi dalle scuole dopo le leggi razziali del settembre ’38: 96 i docenti universitari, ma se si contano i ricercatori salgono a 300, e poi centinaia di professori dei licei, alcuni dei quali continuarono ad insegnare privatamente. Anche Mirella Fiorentini dopo la guerra, tornò ad un liceo pubblico e si laureò. Ha insegnato per tanti anni, “quando raccontavo le mie vicende personali, ricorda, si sentivano volare le mosche in classe, erano tutti molto attenti”.

Ascolta qui l’intervista a Mirella Fiorentini

mirella fiorentini

  • Autore articolo
    Anna Bredice
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