Iniziative

 

 

L’Asia, dal Vietnam alla “fabbrica del mondo”

Prosegue il ciclo di incontri “Dalla Guerra Fredda alla Globalizzazione: 40 anni di politica estera raccontati da Icei e Radio Popolare”. Lunedì 2 ottobre alle 21, nell’auditorium di via Ollearo 5, il sesto appuntamento, dedicato all’Oriente: “L’Asia, dal Vietnam alla “fabbrica del mondo””. Intervengono i relatori Gabriele Battaglia ed Emanuele Giordana, conduce Chawki Senouci.

***

L’Asia della fine degli anni ’70 stava superando fratture e conflitti provocati dalla fine del colonialismo o dalla Guerra Fredda. Dagli strascichi della divisione dell’India ai conflitti infiniti, come quello vietnamita o afgano, le tensioni tra Paesi e le ingerenze delle potenze occidentali incentivavano l’isolazionismo politico ed economico. La nazione più grande, anche se all’epoca non la più “importante”, cioè la Cina, dopo la morte di Mao Zedong si stava avviando lentamente a un’apertura programmata dell’economia ai capitali stranieri, processo destinato a radicalizzarsi negli anni ’90. Altri mondi asiatici restavano ermeticamente chiusi: Birmania, Cambogia, Corea del Nord, Laos. Altri ancora, soprattutto i Paesi arabi, rimanevano intrappolati, alcuni con grandi ritorni economici, nel ruolo di fornitori di greggio all’Occidente. Altri ancora erano già diventati – o stavano diventando – potenze economiche industriali: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong.

L’Asia è così vasta geograficamente e così variegata culturalmente che, di fatto, risulta impossibile descriverla con uno sguardo omogeneo. Occorre “smembrarla” per capirla. Eppure qualche elemento unificante si può trovare, ed è possibile fare qualche considerazione generale: ad esempio, questo continente dispone di una grande capacità di lavoro e di una popolazione giovane. È un’area esportatrice sia di materie prime sia di manufatti, e al tempo stesso è il più grande mercato mondiale per quantità di consumatori (e presto lo sarà anche per volume di affari). È un continente “occupato” per metà da un Paese dalla storia e dalla testa europee, la Russia, e in cui convivono grandi potenze regionali – l’India, l’Arabia Saudita e l’Iran – e due potenze mondiali, Giappone e Cina.

È proprio la Cina ad aver permesso che la grande apertura dei mercati mondiali degli anni ’90 si sviluppasse in tutte le sue potenzialità, negative e positive.

Tra le varie civiltà che costruirono e a lungo mantennero viva la Via della Seta, quel ponte commerciale che anticipò di secoli la globalizzazione, solo una esiste ancora: quella cinese. Pechino è diventata il primo partner mondiale di quel capitalismo transnazionale al quale, oltre 20 anni fa, vennero lasciate le mani libere per delocalizzare il lavoro, spostare capitali, giostrare profitti nei paradisi fiscali. Ora che gli Stati Uniti di Donald Trump si ritirano dai negoziati internazionali che avrebbero dovuto creare due aree di libero commercio (il TTIP con l’UE e il TPP con i Paesi del Pacifico), la Cina diventa uno strenuo difensore della globalizzazione, del multilateralismo e delle regole del WTO: regole che sono state pensate, approvate e sviluppate dall’Occidente.

Piaccia o no, la Cina oggi è l’unica potenza al mondo che ha una chiara visione del suo futuro e che lavora per farla diventare tangibile e concreta. Lo sta facendo tessendo una ragnatela di relazioni politiche ed economiche, come ogni potenza che aspiri a diventare impero.

L’India finora ha scelto un’altra strada, proteggendo con barriere di ogni tipo il suo mercato interno e non permettendo, se non marginalmente, l’arrivo di capitali internazionali destinati a finanziare produzioni per l’export. L’India si vede come un (sub)continente a sé, autosufficiente, ma al tempo stesso si sente sempre più “stretta” tra i suoi vicini. Il peso geopolitico in aumento della Cina e della Russia, i focolai integralisti pachistani e afgani, le acque agitate dell’oceano Indiano stanno spingendo la grande democrazia asiatica a compiere i primi passi verso l’apertura, tanto che in Africa orientale e in Sudamerica si comincia a intravvedere un investimento del capitalismo indiano. Ed è una novità.

Le due potenze industrialmente “mature” dell’area, Giappone e Corea del Sud, sono sempre più “nani politici”. Il Giappone è rimasto solo dopo il fallimento del TPP e si trova letteralmente sotto il tiro del dittatore nordcoreano Kim Jong-un. La Corea del Sud è totalmente schiacciata nello scontro tra USA e Corea del Nord e non riesce ad avere voce in capitolo, pur essendo il Paese che pagherebbe il prezzo più alto in caso di scontro armato.

A questo quadro si aggiunge l’attivismo della Russia di Putin che, oltre a difendere i propri interessi strategici in Siria, Crimea e Ucraina, sta sviluppando una diplomazia degli affari a tutto campo con Iran e Cina ed esercita una rinnovata influenza sulla Turchia.

I Paesi asiatici mediorientali non riescono ancora a ritrovare un assetto territoriale e confessionale post-coloniale. La cosiddetta “maledizione” del petrolio appare un falso problema rispetto ai confini contestati, a conflitti religiosi secolari, agli abusi di regimi autoritari di ogni genere, alla sudditanza nei confronti di potenze straniere. Dal marasma mediorientale è emersa una sola potenza regionale, coesa e ricca di risorse: l’Iran. Questa affermazione non è dovuta solo alla storia millenaria della civiltà persiana, ma anche (e soprattutto) agli errori madornali in ambito di politica estera e militare compiuti dell’Occidente nell’intera area fin dai tempi della Guerra tra Iran e Iraq degli anni ’80.

L’Asia in quanto continente, abbiamo detto, è “inspiegabile”. Ma le varie Asie del XXI secolo sono protagoniste mondiali, nel bene e nel male. Alcuni spezzoni del continente sono ancora intrappolati in conflitti antichi, altri fanno parte delle aree più povere della Terra, altri emergono e alcuni sono vere potenze mondiali. La democrazia di stampo occidentale è conosciuta da oltre un miliardo di persone, per un altro miliardo vale ancora il partito unico di stampo comunista, mentre oltre mezzo miliardo di asiatici sperimentano diverse sfumature di regimi autoritari, dalla teocrazia saudita fino alla semi-democrazia iraniana.

Complessità e frammentarietà, dunque. Com’è inevitabile se si parla di un continente che raggruppa fin troppi mondi diversi, ma che dopo secoli in cui è stato relegato in una zona d’ombra si è scoperto un protagonista del futuro.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    All’interno del centro sociale Leoncavallo si trova una delle più grandi e significative stratificazioni di street art in Italia, che conserva le tracce di eventi storici unici e irripetibili. Si chiama DaunTaun lo spazio situato nei seminterrati del Leoncavallo, in via Watteau. I graffiti, realizzati da diversi artisti urbani, costituiscono una delle più complesse e longeve stratificazioni di street art nel panorama italiano. Molti di questi risalgono al 2003, quando, in occasione del nono e ultimo Happening Internazionale di Arte Underground (HIU) — evento interamente gestito e autoprodotto — si tenne al Leoncavallo il primo evento pubblico di street art in Italia. Con lo sgombero del centro sociale, il futuro di queste vere e proprie opere d'arte resta un’incognita. Tiziana Ricci, a Cult, ne ha parlato con Marco Teatro, artista, pittore, scenografo e pioniere della street art in Italia.

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    In Afghanistan i soccorritori stanno cercando disperatamente di arrivare nelle zone più remote colpite dal terremoto della notte scorsa. Al momento il bilancio ufficiale è di oltre 800 morti e almeno 3mila feriti. Il sisma è stato di magnitudo 6. L’epicentro nella provincia di Kunar - nell’est del Paese, vicino al confine pachistano – e a pochi chilometri di profondità. Si tratta di una zona di montagna già normalmente molto difficile da raggiungere. Il governo dei Taleban – isolato a livello internazionale - ha chiesto supporto esterno. Il terremoto ha colpito un Paese da tempo alle prese con povertà, fame ed emergenze umanitarie. Alessandro Pirisi è operations manager di Emergency a Kabul…

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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