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Fanfare for an uncommon man

La generazione dei musicisti che hanno fatto importanti gli anni d’oro del rock entra nei propri settanta, e volendo essere cinici l’accumularsi di necrologi in questo periodo non è che la mera conseguenza di un impietoso fattore anagrafico.

Ciò nonostante si fatica a credere alla notizia della dipartita di Keith Emerson,  che ci ha lasciati con quello che i tedeschi chiamano Freitod, la morte libera.

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Forse il nome Keith Emerson ai più giovani dirà poco o nulla, ma va detto che nei suoi anni di massima gloria con il supertrio Emerson Lake and Palmer era una icona tanto quanto Lady Gaga, vendeva più dischi di Adele e riempiva gli stadi più di Bruce Springsteen quando viene in Italia.

Dotato di un background di musica classica e di una indubbia capacità virtuosistica, aveva anche un non indifferente fisique du role che sul palco emergeva dal muro di elettroniche che accompagnava le sue esibizioni. Emerson era riuscito a contaminare musiche fino ad allora non comunicanti (rock, classica, jazz, blues ma anche big band e honkytonk) toccando il nervo degli ascoltatori con un linguaggio allora terribilmente nuovo ed eccitante.

A differenza di tanti altri dinosauri del prog, la musica di Emerson e dei suoi compagni non era solo fatta di lunghe cavalcate tastieristiche, ma anche di fulminanti ballate pop e una sapiente messa in scena iconografica da luna park, fatta di palchi immensi, fuochi d’artificio, tastiere incendiate e prese a coltellate.

Tanto quanto basta per riempire gli stadi, e sarà proprio questa autoreferenzialità spinta agli eccessi una delle prime cause del loro declino. Fa impressione, oggi, vedere che la fiamma della fama di Emerson sia bruciata in un lasso di tempo brevissimo, cinque anni: dai fulminanti esordi con i Nice nel 1968 fino all’ultimo grande disco degli ELP, Brain Salad Surgery, del 1973.

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Il gruppo è spazzato via da eccessi personali, litigi dei suoi membri e da un mondo musicale che allora aveva un feroce bisogno di rinnovarsi a cadenze regolari: il punk era alle porte e non c’era spazio per virtuosi narcisi. Ma il lascito è quello di una mezza dozzina di dischi seminali, divertenti, originali, creativi e suonati meravigliosamente.

Tutto il resto è stato vivere di rendita,  con qualche immancabile reunion e degli sporadici colpi di coda (si vedano le collaborazioni con Dario Argento), un costante e crescente problema alla mano destra, vicende private fatte di costosi divorzi e pessimi investimenti ma sempre fedele alla sua musica.

Persona umile e gentile, lasciava dietro di se solo sorrisi e bei ricordi , come quel lungo pomeriggio al bar sotto la radio passato a chiacchierare del più e del meno gustando cioccolata e caffè espresso, con il nostro eroe che firmava autografi ai fan accorsi increduli in via Ollearo.

Se potesse fare un ultimo giro oggi sui social poche ore dalla sua morte, pensiamo che la cosa che gli farebbe più piacere è scoprire  che il suo lascito musicale ha tracciato il solco per generazioni di musicisti che con la sua musica hanno poco a spartire, e questo è un privilegio riservato solo ai grandissimi.

So long, Keith.

  • Autore articolo
    Renato Scuffietti
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