Negli anni successivi alla vittoria della rivoluzione cubana nel gennaio del ‘59, nel campo della musica della maggiore isola dei Caraibi si registrano molte partenze e molti non-rientri. Conseguenza del crollo dell’attività di spettacolo, della fine della bohème notturna dell’Avana, e della statalizzazione dell’attività musicale, che trasforma i musicisti in salariati e li obbliga a chiedere un’autorizzazione per tournée all’estero: se il patrocinio statale sulla musica mette al riparo dagli incerti del mestiere e assicura uno status e possibilità di lavoro dignitose, e può essere gradito da molti che con la musica non riescono certo ad arricchirsi – in molti casi dovendola conciliare con altre professioni, e che per questa condizione sociale sono spesso in sintonia con le idee della rivoluzione – molti altri, soprattutto tra chi è già affermato all’estero, vedono la cosa da un’altra prospettiva. Non perde tempo la popolare Sonora Matancera, che, con la sua popolarissima vocalist Celia Cruz, sceglie già nel ‘60 la strada dell’esilio, trasferendosi negli Stati Uniti. Dopo avere lavorato con la Matancera ancora per qualche anno, quella che sarebbe diventata la “regina della salsa” stabilisce poi a New York un importante sodalizio con Tito Puente; l’apice della sua carriera e del suo successo arriva poi con la collaborazione con la Fania Records, con Johnny Pacheco, e con molti dei grandi nomi della scuderia, Willie Colón, Ray Barretto, Papo Lucca. Cantante di eccezionale temperamento, Celia Cruz assurge a icona della musica latina; ma anche a eroina degli anticastristi di Miami. Muore nel 2003, senza mai essere rientrata a Cuba. Anzi no: si esibisce nella base navale di Guantanamo, e ne approfitta per prendere, passando la mano attraverso la rete che separa dal territorio cubano l’area militare occupata dagli americani, un pugno di terra della sua patria, che per sua volontà è stato poi seppellito con lei. Celia Cruz era nata il 21 ottobre 1925 a Santo Suarez, sobborgo popolare dell’Avana: di origini modeste, afrocubana, con un viso di non straordinaria bellezza, si impone per la sua voce, il suo talento, la sua esuberanza, che ne fanno nel cuore della gente un vero simbolo della cubanità. Di tutti i protagonisti della musica che negli anni dopo la rivoluzione se ne vanno, Celia Cruz è di certo il nome che brucia di più. Il regime non glielo perdona, e la leggenda vuole che l’ostilità sia nutrita anche dal risentimento personale di Fidel Castro, che la annovera fra le tre o quattro sue cantanti predilette. Lei non perdonerà mai al regime di averle impedito di rientrare, nel ‘62, per partecipare al funerale della madre; né di essere stata esclusa nell’81 da un libro di riferimento come il Diccionario de la Musica Cubana dello studioso Helio Orovio, esclusione poi emendata nell’edizione del ‘92 con una breve voce. Ma Celia Cruz a Cuba non è mai stata dimenticata: né negli anni ruggenti della rivoluzione, né oggi. Nel corso dei decenni a Cuba la sua figura e le sue canzoni sono filtrate in alcuni film, documentari e lavori teatrali, in particolare nel ‘94 nello spettacolo Delirio Habanero; nel 2000 una cantante affermata nell’isola come Haila Mompié le dedicò un intero album. Domenica 19 ottobre alla Fábrica de Arte Cubano dell’Avana era previsto, per i cento anni dalla nascita della cantante, un omaggio a Celia Cruz del gruppo di teatro El Público, che è stato cancellato con un secco comunicato – in cui Celia Cruz non è neppure nominata – dal Centro Nacional de Musica Popular. La decisione – commentata negativamente anche a Cuba, per esempio con un lungo post dal drammaturgo Norge Espinosa Mendoza su La Joven Cuba – è un altro sintomo della involuzione anche culturale dell’attuale regime: chi l’ha ottusamente presa non si è nemmeno reso conto che così non stava che confermando – oltre che la propria debolezza – che a Cuba Celia Cruz è vivissima.


