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La scuola non serve a nulla

MANCA L’AMALGAMA

Una riflessione sulla ripresa degli spettacoli dal vivo (in particolare quelli comici!)

Era ora!

Finalmente sono tornato su un palco e la mia gioia faceva sponda con quella degli spettatori. Non per lo spettacolo in sé (“LA SCUOLA NON SERVE A NULLA 2.0”, dal 20 al 31 maggio al Teatro della Cooperativa, quello che dà il nome anche questo blog e di cui vi segnalerò prossime date estive), ma per il fatto di essere lì insieme, finalmente. E durante queste repliche mi sono accorto che da un po’ (già da quelle sette/otto repliche della falsa partenza dell’estate scorsa, in verità), mi frullava in zucca un pensiero.

E il pensiero era: ma come diavolo lo creo quel minimo di amalgama che mi piace tanto, mi diverte e mi serve, con questo pubblico spalmato e distante, a macchia di leopardo? Come diavolo instauro un dialogo, un rapporto che, per chi viene dal cabaret, sono costituiti dal bello della diretta, dalla quarta parete che se ne va e dall’odore delle persone? E occhio, non intendo solo l’amalgama tra me e loro: più importante ancora è quello TRA di loro, tra gli spettatori che danno il massimo, a noi che facciamo i cretini sul palco, quando respirano insieme, quando si contagiano, quando la risata o la tensione diventano collettive.

Perché soprattutto di contagio fisico vive la risata: “rido perché stiamo ridendo” conta di più di “rido perché mi hai fatto ridere”. Insomma, rido sulla fiducia degli altri che ridono. Ed è per questo motivo che l’unione rimescolata degli spettatori è fondamentale per la riuscita di uno spettacolo; e se lo spettacolo funziona, anche questa magia funziona: persone sedute fianco a fianco, seppur sconosciuti, si integrano, si trasmettono emozioni, si assimilano in un’attitudine comune. Tanto comunque nella testa dell’attore, al pubblico in sala accade già, e spesso, di fondersi in una sorta di unico spettatore-modello, quasi una media matematica, un fruitore-tipo di quella sera lì; e su questo “fantasma” (che non esiste, ma a cui l’attore affida idealmente l’incarico di sintetizzare le caratteristiche del pubblico), l’attore prende, ogni sera in modo unico e non ripetibile, le misure per la gestione dell’andamento dello spettacolo: rallenta, accellera, alleggerisce sulla base dei comportamenti di questo inesistente spettatore medio.

Ma adesso, con una situazione in cui bastano 50 persone sparse a fare sold-out? Be’, ‘sto amalgama se ne va un po’ a ramengo. Delle volte meglio 30 spettatori ammassati sotto palco (tanto alla fine con un occhio di bue piantato negli occhi quelli riesci a vedere) che 1000 distribuiti all’Arena di Verona. Il rischio di contagio medico finisce col produrre l’assenza di contagio sociale. Quindi, tu sul palco non senti IL pubblico, senti Tizio e Caio che ridono, Sempronio seduto lì a sinistra che non lo fa, Mimì che mugugna e Cocò che dorme. Percepisci lo sghignazzo della signora Felicita, sempre cacofonico e fuori tempo, la rassegnazione muta del dottor Procopio e i commenti negativi del signor Bonaventura, magari buzzurro e totalmente prevenuto.

E infatti, a voler esser più profondi, le ricadute di queste disposizioni logistico-sanitarie sono anche di tipo filosofico-sociali: l’attore, con il pubblico, non si trova più nella situazione “IO+VOI”, ma in quella “IO+TU+TU+TU e TU… che va be’, siete congiunti fidanzati quindi seduti vicini ecc. ”.  Theatron, in greco, è quel posto dove “ci si osserva” (theaomai, in greco antico significava, appunto, “guardare”) e ci si ascolta. O meglio, dove “l’attore guarda e ascolta il pubblico che lo guarda e lo ascolta”; e tutti insieme ci si fonde, si entra in relazione di comunità. Relazione, appunto: ecco, da un punto di vista di mera percezione acustica, almeno nei piccoli spazi, il senso di comunità ancora non si riesce ad avvertire. Come se perdurasse ancora, coriacea, quella monadizzazione sociale cui questi tempi ci hanno costretto. Ancora isolati, niente assembramenti, nemmeno di suoni. Non si riesce ancora a “far massa”, a ritornare di nuovo compeltamente “collettività”.

E siccome mai come per il pubblico teatrale vale l’assunto gestaltiano per cui la somma degli elementi considerati nel loro insieme “è di più” della somma degli stessi elementi considerati singolarmente, accade che l’energia della risata del pubblico, che appunto prima cresceva autoalimentandosi, aggrovigliandosi con quella di tutti e infine, come palla di neve, catapultandosi sull’attore in scena… ora invece si discioglie in tanti rivoletti sterili, singoli quanto sghembi, e dalla gittata corta (senza contare che il pubblico deve tenere la mascherina in teatro, e questo attenua  – è stato calcolato – quasi del 45% i decibel di emissione sonora della fonazione, quindi anche quella delle risate!).

Si dirà: e cosa si può fare? Ah be’, niente, se non prenderne atto. Tipo essere consapevoli che, applicando i parametri pre-Covid, un attor comico oggi ne potrebbe ricavare una sensazione tipo “stasera non sta funzionando…”. E invece magari si sbaglia, magari potrebbe non esser così male: è solo che manca l’amalgama. Che non vuol dire sentirsi rilassati al punto da riposare sugli allori, ma solo che: se ADESSO ti sembra che sia andata benissimo, che t’è arrivata dal pubblico la stessa energia di quelle fantastiche repliche di PRIMA che tutto si fermasse… beh, ecco, allora forse hai fatto davvero una GRANDE replica.

Insomma, adesso è un po’ come fare spettacolo in Svizzera – Svizzera italiana, ovvio -, dopo averlo fatto… che so, a Zelig il sabato sera.

E solo chi ha fatto spettacolo nella Svizzera italiana sa quanto sia pertinente chiudere, così, questo pezzo…

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Appunti sulla mondialità

G7 e Global Tax: governare la globalizzazione? L’attivismo geopolitico

Evento epocale o solo un primo passo? I giudizi sulla proposta di introdurre una global tax sui profitti aziendali che i ministri dell’Economia del G7 presenteranno al prossimo G20 e all’OCSE sono diversi. Andando per ordine, da un lato è vero che si introduce il concetto di “tassa mondiale” prendendo atto, in grande ritardo, che la globalizzazione non può essere governata da un singolo Stato ma deve essere gestita in modo multilaterale. E questo dato è senza dubbio epocale.

Dall’altro lato, i critici mettono in discussione l’aliquota al 15% della tassazione, considerata un compromesso al ribasso rispetto al 21% proposto da Joe Biden. In effetti, il 15% si avvicina molto al 12,5% applicato dall’Irlanda, che è uno dei Paesi con la tassazione corporate più bassa. Inoltre c’è da considerare che la proposta deve essere ancora approvata dal G20 e dall’OCSE, e poi bisognerà trovare una formula che permetta di varare in contemporanea la stessa legge almeno nei 38 Paesi dell’OCSE. Soprattutto, rimane aperta una questione tecnica di portata gigantesca che riguarda la soglia dell’area “no tax”. Nella sua formulazione attuale, infatti, la tassa si applicherebbe solo alle aziende con margini di profitto sopra il 10% rispetto al fatturato: una soglia che raramente le grandi multinazionali superano. Ad esempio Amazon nel 2020, il suo anno “straordinario”, ha registrato un margine di profitto pari al 6,2%: ad anni luce dalla soglia minima. E le pochissime imprese che oggi superano la soglia del 10% lavorerebbero con i consulenti fiscali per “limarla”, così da restare nell’area “no tax”.

Il problema vero, quindi, non è l’aliquota del 15%, ma il fatto che i grandi gruppi – quelli che si vorrebbe colpire – raramente ufficializzano percentuali di redditività tali da far entrare in gioco la global tax, almeno così com’è prevista. Un pronostico semplice è che alla fine, se dopo il lungo iter questa proposta sarà approvata, i soldi veri che entreranno nelle casse degli Stati dove le multinazionali producono reddito saranno molto pochi, quasi nulla. Eppure il segnale dato dal G7 è importante lo stesso, perché suona come una sorta di avvertimento ai grandi operatori economici. Soprattutto, è importante perché arriva dal Paese che fino a pochi mesi fa, con la presidenza Trump, sabotava tutti gli organismi multilaterali e qualsiasi tentativo di intesa tra Stati. Se gli Stati Uniti decidono che la globalizzazione va governata, ci sono buone chances che qualcosa succeda.

Simbolicamente si segna un precedente inedito, che oggi vale per il fisco e domani potrebbe valere per l’ambiente, l’altro grande fronte sul quale l’azione isolata dei singoli Stati non può portare ad alcun effetto. Anche sul cambiamento climatico poco si è fatto negli ultimi quattro anni perché gli USA “negazionisti” di Donald Trump hanno boicottato qualsiasi iniziativa multilaterale. Uno scossone unitario su questo tema potrebbe, almeno a livello simbolico, far capire che si vuole voltare pagina anche qui. Per non parlare di democrazia e diritti umani, ma ora scivoliamo nell’utopia.

Comunque sia, la proposta del G7 sulla global tax non è “epocale”, ma nemmeno “poca cosa”. È un segnale di un nuovo approccio alla globalizzazione, accelerato dalla pandemia. Gli Stati si sono indebitati, hanno finanziato la ricerca e acquistato apparecchiature mediche, hanno firmato contratti a scatola chiusa per miliardi di dosi di vaccini, si sono fatti carico dei lavoratori e delle aziende costrette alla chiusura: ora hanno bisogno di passare il conto. Per necessità, si arriva a imporre regole fiscali anche a chi finora ne era stato esentato. Qualcosa che doveva succedere da tempo, ma che la pandemia ha reso urgente, fornendo alla politica l’alibi per riprendersi qualcuno dei poteri che aveva man mano abbandonati negli anni, e anche per recuperare il suo ruolo redistributivo.

 

Interpretare, informare, controllare è compito da sempre del giornalismo indipendente. Sui temi della globalizzazione ci sono maree di fake news e di narrazioni di parte che fanno da cornice a un fenomeno complesso e contraddittorio. Lo sforzo di programmi come Esteri di Radio Popolare è quello di fornire le informazioni necessarie perché ciascuno possa formarsi una propria idea e, volendo, diventare un “attivista geopolitico”. Cioè una persona che attivamente diffonde le informazioni alle sue cerchie e che fa anche delle scelte ad esempio in quanto consumatore.

Sto portando avanti uno dei primi progetti di attivismo geopolitico con OGzero (Orizzonti geopolitici 0) che vi invito a conoscere e sostenere:

 https://www.produzionidalbasso.com/project/siamo-gia-oltre-partecipa-al-progetto-di-attivismo-geopolitico/ 

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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In alto a sinistra

Cari compagni interisti vi scrivo…

Cari compagni interisti,

ve lo devo proprio dire: io (un pochino) vi invidio. Non certo per la fresca vittoria della scudetto. Di quelli, noi juventini, ne abbiamo a bizzeffe (giusto per fare un confronto, il diciannovesimo scudetto lo abbiamo vinto nella stagione 1980-1981, quando si poteva avere un solo straniero, preistoria!) e ne cederemmo volentieri cinque o sei in cambio di una bella coppa dalle grandi orecchie.

No, l’invidia è perché, checché ne diciate, voi non sapete cosa vuol dire soffrire veramente (calcisticamente parlando). Vi ammantate di epica della sofferenza, ma non ne conoscete il vero significato. Quello è appannaggio di noi, juventini di sinistra, forse in parte accomunati in questo dai vostri cuginastri rossoneri (nel lungo periodo berlusconiano).

Provo a spiegarvi cosa intendo: voi vi beate della vostra “pazza Inter”, delle partite (vinte o perse) all’ultimo secondo, dei match al cardiopalma etc… ma non potete capire la sofferenza profonda che prova un compagno juventino.

Avete un mucchio di cose con cui potete consolarvi.

Avete il vostro rosario laico “Sarti, Burgnich, Facchetti…”. Io, per ragioni anagrafiche, la prima formazione juventina che ricordo a memoria è quella “Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek”. Capite? Avevo il poster di Bettega in camera, lo adoravo, e poi mi è diventato uno della Triade, con Moggi e Giraudo. Un trauma difficilmente superabile. E Platini? Le Roi Michel, poi mi diventa presidente Uefa e fa quel che fa. Cabrini mi si candida con l’Italia dei Valori (l’Italia dei valori!). Insomma, una delusione dietro l’altra.

Voi avete il triplete, il mai in B… Io ho la serie B post calciopoli e le sconfitte in finale di Champions. Mi ricordo ancora bambino le lacrime dopo la finale di Atene e il gol di Magath. Sorvolo sull’Heysel perché quella fu solo una tragedia. Arriviamo al 1996, Gianluca Vialli solleva la coppa a Roma, dopo la vittoria contro l’Ajax e io dove sono? Ventunenne militante politico probabilmente quella sera stavo organizzando la rivoluzione in qualche scantinato, e ero ebbro della retorica del “calcio oppio dei popoli, strumento del capitale etc…”. Insomma, niente festeggiamenti. Poi mi ravvedo, e capisco che il calcio è popolo. E cosa mi aspetta? La sconfitta a Monaco contro il Borussia Dortmund. L’anno successivo, quella contro il peggior Real Madrid dell’ultimo secolo (tra l’altro con gol in evidente fuorigioco). Poi la finale di Manchester, contro il Milan (ero allo stadio a Torino nella meravigliosa semifinale contro il Real Madrid, quando Nedved su ammonito e così saltò poi la finale. Tra l’altro, pure su Nedved da uomo di sinistra qualcosina avrei da dire). Più recentemente la finale persa contro il Barcellona, quella col Real Madrid, la semifinale sempre contro i blancos e un arbitro col bidone della spazzatura al posto del cuore.

Voi quando vincete gioite, festeggiate, è una festa di popolo. Noi quando vinciamo abbiamo sempre un rigorino regalato, un fallo di mano non visto, un’espulsione esagerata. Insomma, da uomo di sinistra, sempre contro le ingiustizie, faccio un po’ fatica a festeggiare pienamente.

Vogliamo poi parlare della società e degli allenatori?

Voi avete avuto il presidente buono, quello che aiuta i palestinesi e il Chiapas. Noi abbiamo avuto uno che impersonificava il peggior capitalismo italico con l’orologio sul polsino e adesso suo nipote con la sua arroganza da Superlega.

Voi la sfacciataggine di Mourinho, la classe di Gigi Simoni, la sfiga madornale di Hector Cuper (remember 5 maggio?). Noi l’antipatia rara di Capello, quella uguale di Conte (che ora dovete pure ringraziare per avervi fatto vincere uno scudetto dopo un decennio) e l’incapacità tattica di Delneri.

E dei calciatori che dire? Voi Ronaldo il Fenomeno, noi il fighetto Cristiano (sempre sia lodato). Voi il Capitano Javier Zanetti che dopo l’addio al calcio resta legato al club. Noi un club che caccia via in malo modo il Capitano Alessandro Del Piero.

Per non parlare dei tifosi vip. Voi avete Gino Strada, Elio e le storie tese, Roberto Vecchioni. Se vi va male Ligabue. Ah no, per fortuna (mia) avete anche Povia e la Russa! Noi Ramazzotti, Giletti (Giletti!) e la Panicucci.

Ci sarebbero molte altre cose da dire ma spero, cari compagni interisti, di avervi convinto: il vero uomo sofferente (calcisticamente parlando) non è l’interista di sinistra, ma lo juventino comunista. Voi siete come quelle persone che si sentono di sinistra ma poi votano Pd, convinti di aver fatto qualcosa di sinistra, sperando in una misera vittoria, accettando mille compromessi. Io soffro (calcisticamente parlando) quando la mia squadra perde e pure quando vince. E voto pure Rifondazione Comunista! Insomma, #maiunagioia.

  • Alessandro Braga

    Classe 1975. Giornalista professionista, prima di approdare a Radio Popolare ha collaborato per anni col Manifesto. Appassionato di politica, prova anche (compatibilmente col tempo a disposizione) a farla

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Piovono Rane

I centurioni, le bighe e il candidato Michetti

Nel 2008, quando Gianni Alemanno divenne sindaco di Roma, si portò dietro un codazzo di nostalgici non solo del Ventennio ma anche dell’Impero, di Roma Antica e del suo potere sul mondo allora conosciuto.

Alcuni di questi ebbero la bella idea di ripristinare le corse delle bighe, che si sarebbero dovute svolgere al Circo Massimo, come due millenni fa.

Fortunatamente, l’assessore alla Cultura era Umberto Croppi, uomo di destra ma soprattutto di zucca, che si oppose anima e corpo al progetto imperial-trash, al punto da appendere nei suoi uffici dei volantini in cui c’era una biga sbarrata e la scritta: “Finché ci sono io assessore a Roma NON si fanno corse delle bighe”.

Ecco, ogni tanto a Roma salta fuori questa cosa qui: la tentazione del fantasioso ritorno ai fasti antichi, quando si era “caput mundi”. Un accoccolarsi attorno a un passato mitologico per ricordare a se stessi la propria antica grandezza, peraltro perduta non esattamente da ieri.

È un cosa che riemerge carsicamente, specie quando le cose vanno male, quando il presente lascia a desiderare e ci si rifugia nel passato.

Ed è quello che è riemerso, in modo assai appariscente, con la candidatura  di Enrico Michetti, scelto ieri dalla destra per sfidare Raggi e Gualtieri.

«Da città eterna le restituirò il ruolo di Caput mundi, voglio riportarla agli antichi fasti, alla città dei Cesari» è il concetto testuale che trovate in tutte le interviste uscite questa mattina sui quotidiani, ma è anche il refrain, arricchito di citazioni classiche, di molti dei suoi interventi radiofonici e nei video che trovate in giro.

Anche la storia del saluto romano: dai media è stato inteso come sdoganamento del Ventennio, ma se ne ritrovate il contesto capite facilmente che a lui il saluto romano interessa soprattutto all’interno di un nostalgismo che arretra molto più in là, fino ai centurioni e alla campagna di Cesare in Gallia.

Ovviamente, nel 2021, questa roba è tutta paccottiglia da Las Vegas, è una finzione degna di un libro di Palahniuk, insomma è una cosa penosa. Lo aveva capito bene anche Croppi, uomo di intelligenza e cultura che immagino oggi scuotere il capo ascoltando questi deliri imperiali.

Vedremo quanti romani ci cascheranno, spero il meno possibile.

A me –  che non urlo allo spauracchio di un “fascista al Campidoglio” –  farebbe invece molta tristezza vedere un’altra rinuncia di  Roma al presente, alla contemporaneità e al suo futuro metropolitano, in nome di un patetico arrocco nel mito imperiale, magari con le bighe di nuovo al Circo Massimo.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Sante parole

“Una lingua è un dialetto con un esercito e una bandiera”

Negli ultimi decenni in Europa l’idea di Stato-nazione come l’abbiamo conosciuta dal primo Ottocento (o dal Romanticismo, se preferite) in poi, è stata messa in discussione dalle spinte concomitanti e divergenti dell’europeismo e dell’autonomismo (spinte che spesso hanno portato alla nascita di un altro “-ismo”, il sovranismo, ma questa è un’altra storia).
Uno degli strumenti principali nella costruzione di identità autonomistiche spesso fai-da-te è quello della lingua: quante volte ci siamo sentiti dire “il [aggiungere il nome di un dialetto a piacere] è una lingua, non un dialetto”?
Peccato che, malgrado quasi due secoli di sforzi, i linguisti non siano ancora arrivati a una definizione univoca e condivisa della distinzione tra lingua e dialetto, al punto che Max Weinreich, un sociolinguista specializzato nello studio dello yiddish, provocatoriamente arrivò ad affermare che “Una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina” (“e una bandiera”, nella versione modificata dal linguista inglese Randolph Quirk).
Il criterio comunemente accettato è che la lingua è stata sottoposta a un processo di standardizzazione, mentre un dialetto generalmente no. Questo peraltro è un criterio per così dire “non naturale” (ok, ok, l’ho detto male), dipendente da una decisione “a posteriori” di natura politica: prendiamo delle persone che presumiamo competenti, paghiamo loro uno stipendio e chiudiamole in una stanza per decidere se in un’ipotetica lingua bergamasca standard, quella che in italiano è la roncola si debba chiamare fölsch (come ad Averara, in alta Val Brembana) oppure podét (San Giovanni Bianco, 14 km più a sud) o pigazza (Sedrina, 30 km più a sud) o ancora scorláss (Calusco, 55  km più a sud)*.
Questa opera di normalizzazione è stata compiuta per esempio con il catalano e con il basco (standardizzando quelle che erano i sei dialetti baschi e un’infinità di varianti locali), spesso utilizzando criteri più politici che linguistici, per esempio adottando sempre la grafia più distante da quella del castigliano (il gràcies catalano si pronuncia esattamente come il gracias castigliano, tanto per dirne una).
Ovviamente la questione dei dialetti e dei regionalismi è una delle croci-e-delizie del mestiere del traduttore: nella Holt di Kent Haruf i personaggi più umili dicono of anziché have, l’argentina Mariana Enriquez nel suo ultimo romanzo (Nuestra parte de noche, ancora inedito in Italia) gioca a più riprese con il modo di parlare (“da telenovela messicana”) di un inglese che evidentemente non ha imparato lo spagnolo in Argentina. Come si rende per un lettore italiano la coloritura locale di un pescatore di Vigo che parla di un ollomol, un pesce che in castigliano si chiama besugo e in italiano occhione (ma anche pezzogna in Campania, e in Liguria, guarda un po’, besugo)? Per fortuna i traduttori, che sono gente pedante ma anche pragmatica, hanno almeno creato Fishbase, un glossario paneuropeo dei nomi dei pesci!

*disclaimer: nessun bergamasco è stato maltrattato per scrivere questo post. E io non sono un linguista, tantomeno un dialettologo; sono solo un tuttologo dell’internet e questo è un copia-e-incolla dal profilo Facebook di una persona che non mi pare di conoscere personalmente, quindi se questa cosa della roncola non fosse corretta, siate indulgenti: il concetto comunque mi pare comunque chiaro.

  • Fabio Cremonesi

    Studi di storia dell'arte medievale, un passato da operaio presso uno spedizioniere, dirigente in una multinazionale delle telecomunicazioni, editore e promotore editoriale, oggi mi dedico alla traduzione a tempo pieno. Le mie lingue di lavoro sono tedesco, inglese e spagnolo (occasionalmente anche portoghese e catalano). Con Le nostre anime di notte di Kent Haruf ho vinto il premio Corriere della Sera-La Lettura per la miglior traduzione del 2017.

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    A cura di Chawki Senouci con Gabriele Battaglia

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    COLLETTIVO GESSI WHITE - CITTA' IN AFFITTO - presentato da F. Fulghesu

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    Morti in bici, ecco le mappe per ridurli

    L’Atlante italiano dei morti (e dei feriti gravi) in bicicletta, la più completa mappatura dell’incidentalità ciclistica in Italia finora mai realizzata (gratis e consultabile a questo link: https://craft.dastu.polimi.it/it/articles/15) è il risultato di uno studio del Competence Centre on Anti-Fragile Territories (CRAFT) del Politecnico di Milano. Quattro Dashboard offrono un’analisi degli incidenti ciclistici su base ISTAT 2014-2023 in ogni singolo comune italiano e i dati possono essere consultati per province, regioni e aggregazioni spaziali libere. La quinta Dashboard consente di visualizzare la localizzazione degli incidenti con le coordinate utili alla geolocalizzazione degli incidenti. Paolo Bozzuto, docente del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - DAStU, coordinatore del progetto: “Geolocalizzare e mappare tutti gli incidenti ciclistici è un cambio di paradigma per l’analisi dell’incidentalità ciclistica in Italia è diventa uno strumento di conoscenza e pianificazione per contribuire a ridurre gli incidenti”.

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    Sguardi, opinioni, vite, dialoghi al microfono. Condotta da Massimo Bacchetta, in redazione Luisa Nannipieri.

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    I fatti del giorno analizzati dai nostri esperti, da studiose e studiosi. I protagonisti dell'attualità intervistati dai nostri conduttori.

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    Plastica, annunciato il blocco degli impianti di riciclo: “Il Governo salvi il settore”

    L’associazione Assorimap, che riunisce gran parte degli impianti italiani di riciclo della plastica, ha annunciato il loro blocco immediato denunciando “mancate misure urgenti per salvare il comparto”. A ottobre l’organizzazione aveva avuto due incontri con il Governo. Da mesi Assorimap parla di un crollo del fatturato e degli utili del settore, dando la colpa a questioni come i costi dell’energia e la concorrenza della plastica importata da paesi esterni all’Unione europea, che sarebbe venduta a prezzi insostenibili per gli impianti italiani. Mattia Guastafierro ne ha parlato con Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.

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