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Appunti sulla mondialità

La seconda Guerra Fredda

Al G7 di St Ives sono state svelate le linee guida dello scontro globale in corso. Una nuova versione della Guerra Fredda ancora senza nome, con alcuni protagonisti consolidati e qualche new entry. Anzitutto ritorna il G7, il club esclusivo dei Paesi occidentali più ricchi, che nel 1999 era stato superato dalla nascita del G20, il club allargato alle potenze emergenti che rappresenta il 68% della popolazione mondiale. La questione è che nello stesso “contenitore” del G20 si trovano tutti i novelli contendenti – USA, Cina e Russia – e quindi c’è poco da aspettarsi. Joe Biden, da leader della cordata occidentale, ha illustrato le differenze tra “noi”, Paesi democratici, e “loro”, il nuovo asse del male composto da Russia e Cina, oltre che da una serie di comprimari come Iran, Turchia e Venezuela.

Durante la Guerra Fredda la differenza tra i due fronti era riassumibile in mercato versus economia pianificata e democrazia versus totalitarismo. Oggi sul mercato la pensano tutti allo stesso modo. Rimane invece, pesante come un macigno, la questione delle libertà e dello Stato di diritto. Ma è una distinzione affrontata solo a livello generico, senza scendere nel dettaglio. Ad esempio, il G7 non ha detto nulla sul Myanmar sotto il tallone dei militari sostenuti dalla Cina. La sensazione è che i diritti umani siano merce di scambio, da mettere sul piatto sulla bilancia commerciale, il vero centro dello scontro. L’Occidente, che si è trovato impreparato e debole davanti alla pandemia, ha capito traumaticamente che negli ultimi decenni il mondo si è sbilanciato troppo: all’improvviso si è manifestata appieno, con drammatiche conseguenze, la dipendenza dei Grandi dai cicli industriali cinesi e dalle materie prime dei Paesi che gravitano nell’orbita di Pechino. E dietro l’apripista cinese si delineano la Russia come potenza semi-globale e l’Iran e la Turchia come potenze regionali. Non solo. Il regime totalitario di Pechino ha saputo dare una risposta veloce ed efficace alla pandemia, con metodi che in democrazia sarebbero impossibili, preparandosi in anticipo a diventare la locomotiva della ripresa economica mondiale.

In poche parole, il gioco si è fatto duro e i Grandi hanno ripristinato il G7 per dimostrare che comandano ancora loro. Ma è davvero così? In prospettiva la risposta è probabilmente no, anche se al momento parzialmente sì. Oggi la forza dei Paesi del G7 non è il loro arsenale militare, imbattibile e costoso, ma la ricchezza dei loro mercati. Si tratta però di una ricchezza che scorre sempre di più verso altri Paesi, dispersa in milioni di rivoli, lasciando ai Grandi sempre di meno in termini di entrate fiscali e creazione di impiego. Il drenaggio economico favorisce chi possiede materie prime e, soprattutto, chi le trasforma, ed è destinato a tradursi anche in potere politico. Tuttavia i Paesi del G7, e soprattutto gli Stati Uniti, non sono preparati a cedere quote di governance mondiale alle nuove potenze, soprattutto perché culturalmente e politicamente le percepiscono come lontane. Ciò che non viene raccontato durante i vertici come quello di St Ives è che il mondo costruito dal colonialismo, e poi dal gioco delle potenze del ’900, è ormai poco difendibile. Che in molti Paesi africani, a fronte del lascito della Francia, ad esempio, si apprezza molto di più la Cina. O che in Centro America c’è una certa ostilità verso la retorica democratica di chi in passato copriva i colpi di Stato, e la fame alimenta i populismi di ogni segno.

I rivali della nuova Guerra Fredda hanno entrambi i piedi di argilla, se il piano della contesa è lo stato dei diritti a livello mondiale, e qualcuno ce li ha anche se ci si limita a considerare ciò che accade in casa sua. Ma, a differenza di quanto accadeva in passato, i grandi avversari di oggi sono legati indissolubilmente tra loro nella costruzione e nella gestione della globalizzazione. Dove conta di più chi fabbrica e chi vende un iPad che possedere un missile intercontinentale.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Politica leggera

Da Stresa ai Benetton a Cesare Battisti: o Stato di Diritto o barbarie

Quando crollò il ponte Morandi corsi a Genova, a lavorare come cronista per Radio Popolare.

Ricordo l’emozione e ricordo la rabbia e l’indignazione e la grande umanità dei genovesi, la loro tensione politica.
E ricordo i rappresentanti del governo, i 5 Stelle in particolare, arrivare a Genova a fare passerella sul ponte indicando il colpevole, a macerie ancora fumanti: i Benetton.

Di Maio, Toninelli, Conte avevano già scritto la sentenza. “Non aspetteremo i tempi della giustizia” dichiararono solennemente.

Meno di tre anni dopo, la gestione delle autostrade che erano in appalto alla famiglia Benetton è tornata nelle mani dello Stato. In cambio però di un indennizzo di circa nove miliardi di Euro.

Dell’esperienza come cronista a Genova ricordo la grande attenzione e partecipazione degli ascoltatori e dei lettori del nostro sito, ma ricordo anche una piccola shitstorm (tempesta di merda, nella cruda e chiara traduzione in italiano di questo termine anglosassone legato ai meccanismi dei social network) quando scrissi che al principio dello Stato di Diritto non si debba derogare mai e che nei confronti di chiunque, anche della famiglia Benetton di fronte a un ponte crollato e 43 morti, si debba attendere che sia un Tribunale a emettere la sentenza, stabilendo la verità giudiziaria in un Processo.

Ci ho ripensato, in queste settimane, allo Stato di Diritto, prima seguendo le vicende della strage della funivia di Stresa, e poi leggendo dello sciopero della fame dell’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo Cesare Battisti, il quale protesta per le condizioni in cui è detenuto.

Stato di Diritto significa cose come il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, o come l’umano trattamento dei detenuti. Di ciascun detenuto.

Ci ho pensato, oggi, ricordando quella piccola shitstorm (beh avete capito come si traduce), riflettendo su chi a Stresa ha già deciso che si debba “buttare via la chiave” e parla fin dal primo momento dei “tre colpevoli”, e riflettendo su chi Cesare Battisti magari lo vorrebbe vedere morto.

Ho pensato che probabilmente una singola persona, un lettore di questo post, potrebbe essere d’accordo con me su uno o due dei tre esempi ma non su un terzo, a scelta, a seconda dei gusti, delle sensibilità, delle idee politiche.
Da una parte il Diritto. Dall’altra il giustizialismo, il populismo, il sistema mediatico e quello politico che cercano visibilità, lettori e voti alimentando opinioni pubbliche con la bava alla bocca, e venendone al tempo stesso condizionati.

Quando crollano un ponte o una funivia, quando liberano un mafioso che ha scontato la pena, quando un innocente viene stritolato dal sistema giudiziario, quando un ex terrorista protesta per come viene trattato in carcere: o si è sempre per lo Stato di Diritto o non lo si è mai

  • Luigi Ambrosio

    Vorrei scrivere di mille cose e un giorno lo farò. Per ora scrivo di politica. Cercare di renderla una cosa umana è difficile, ma ci provo. Caposervizio a Radio Popolare, la frequento da un po' ma la passione non diminuisce mai

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L'Ambrosiano

Dimmi che tipo di Enea sei e ti dirò come sarà il dopo pandemia

Siamo in una morsa. Plaudiamo a riaperture e ripresa, è naturale: non se ne poteva più. Ma Draghi vuol confermare lo stato d’emergenza: motivi ce ne sono. I virus non usano Twitter, ma varianti: andrà spiegato ai politici che vivono di social. Milano può esser d’esempio: è abituata a risorgere dopo i drammi.

Le idee forti fanno uscire dalle crisi. Consentono la gestione della fase più difficile, insidiosa, delicata: se “non sarà più come prima” occorre un’”invenzione”, trovare senso e natura della ripartenza. Nessuno ha ricette: van studiati approcci, stili, mete; con coraggio e immaginazione, riconoscere limiti e pochezze, volare alto: lasciarsi ispirare.

Ascoltare la voce dei poeti può trar fuori dal buio. L’arte ha valore politico: esprime la potenza del simbolo; questo si presenta nelle forme che vediamo, ma contiene un mix portentoso: passato, attualità, futuro; ne sprigiona la forza. L’arte cambia la vita. C’è un gruppo scultoreo del Bernini: Enea che ha sulle spalle il padre Anchise e al fianco il figlio Ascanio.

L’icona della solidarietà tra generazioni dalla Galleria Borghese impregni istituzioni, forze sociali, media, cultura; marchi l’anima. Enea, tramite tra il vecchio distrutto e nuovo da inventare, mito e insieme eroe del quotidiano grazie all’identificazione che la plasticità del marmo suscita in chi guarda, si fa carico di sofferenze e tradizioni portate dagli anziani (Anchise è paralizzato e ha in mano il vaso con le ceneri degli antenati: tipo quelle restituite a Bergamo dopo le cremazioni fatte altrove); accompagna il generare (Ascanio ha il fuoco del tempio: energia pubblica in antico, eros interiore sempre).

I tanti Enea che noi siamo possono grazie all’arte convergere su tre compiti ineludibili. 1. Sognare, pensare, lavorare, amare per noi e gli altri; dopo le peripezie si approda a rive ignote: lì si ricomincia tutti insieme. 2. Realizzare la riforma dei servizi per anziani (se il Recovery non è carta): riuscirà cambiando modo di pensare quell’età. 3. Da settembre rifamiliarizzare figli e scuola, premessa per restituire ai giovani il futuro che gli abbiam negato ben prima del Covid. Se si spegnesse il fuoco di Ascanio sarebbe sì una tragedia. Ancora arte, sperando con catarsi autentica.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Ciucci volanti

Sepulveda a Port’Alba

Napoli torna ad essere una capitale del libro. Il rinascimento dell’editoria napoletana passa anche per la famosa via dei libri: Port’Alba. Passa per la libreria Langella, di Pasquale Langella, che da circa un anno ha affiancato alla sua storica attività di libraio quella di editore. Editore di volumi di pregio, stampati su carta di Amalfi, impacchettati a mano. Pasquale non è solo un libraio che spaccia volumi del Seicento e del Settecento, un segugio di libri rari, Pasquale sta diventando una perla editoriale della città di Napoli.

Dopo aver tradotto, per la prima volta in Italia, la svedese Anne Charlotte Leffler, con il suo libro Bozzetti napoletani, Langella piazza il colpo dell’anno annunciando su facebook la pubblicazione in dialetto napoletano del più importante libro dello scrittore cileno Luis Sepulveda: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”. Traduzione di Claudio Pennino con illustrazioni di Federica Ferri. Dopo una trattativa con una delle agenzie letterarie più importanti del mondo, la Carmen Balcells, Langella rende Port’Alba nuovamente il centro dell’editoria partenopea attirando l’attenzione di stampa e curiosi. Il volume vedrà la luce nei prossimi mesi e sarà distribuito dalla milanese DirectBook.

Con questa operazione Langella si apre all’editoria internazionale senza dimenticare radici, tradizioni e lingue, come quella napoletana, parlata da oltre 6 milioni di persone nel mondo. Tra gli autori pubblicati da Langella ci sono il grande Nino Leone, scrittore di razza e il giornalista Pietro Treccagnoli che contribuisce alla casa editrice anche creativamente. Langella sta creando un bel polo del libro nel cuore del centro storico napoletano, unendo tipografie (vedi Volpicelli), autori, università e illustratori. Un editore da tener sott’occhio, che osa e si discosta dalla vecchia guardia dell’editoria napoletana sempre più in affanno e incapace di reinventarsi. Signori e Signori passate per Port’Alba, next stop Libreria Langella.

 

  • Rosario Esposito La Rossa

    Sono direttore editoriale della case editrici Marotta&Cafiero e Coppola editore, ho pubblicato oltre 100 libri nel mio quartiere, tra cui Stephen King, Daniel Pennac e Gunter Grass. A Scampia e Melito ho fondato la prima libreria del quartiere: La Scugnizzeria. Ho scritto il mio primo libro a diciotto anni vincendo il Premio Giancarlo Siani. Sono cugino di Antonio Landieri, vittima innocente di camorra. Per il mio impegno contro il degrado sociale e la creatività sono stato nominato nel 2016 dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella Cavaliere dell’Ordine al Merito

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Piovono Rane

Calenda, il Gladiatore, Virginia e i sette nani

Nella campagna elettorale per il prossimo sindaco di Roma per il momento ci sono solo due certezze.

La prima: si andrà al ballottaggio, nessuno prenderà il 51 per cento al primo turno.

La seconda: allo stato il candidato con più visibilità in città è Carlo Calenda, l’ex ministro e fondatore di Azione.

Calenda è praticamente dappertutto: appiccicato sugli autobus (in versione un po’ dimagrita dal photoshop), nei talk show televisivi locali e nazionali (che di solito si concludono a insulti con altri politici presenti o assenti), nella paginate entusiaste che gli regala il Messaggero di Caltagirone.

Ma appare anche in carne e ossa per le strade, specie quelle di periferia, dove coraggiosamente scende dal suo pulmino customizzato prendendosi i lazzi e il body-shaming degli indigeni.

Il presenzialismo estremo di Calenda è diventato un motivo di divertimento e battute non sempre correttissime, tipiche di una città che ha visto tutto e che tutto trasforma in parodia, dall’arrivo degli americani nel ’44 a quello dei leghisti nel ’92, e poi i grillini con i loro zainetti nel 2013, quindi il marziano Marino e adesso ecco Calenda, con la sua buffa aggressività verbale, che fa di tutto per uscire dalla vignetta  – ahimé, non infondata – del pariolino che a un certo punto scopre l’esistenza pure di Tor Bellamonaca.

Il risultato è paradossale, come spesso avviene da queste parti: uno che si presenta con l’assertivo slogan “Roma sul serio” il quale tuttavia non viene preso in alcun modo sul serio – anzi diventa meme comico.

L’altra sera tra amici – panel non rappresentativo, s’intende  – ci si chiedeva chi potrebbe votare Calenda, chi tra i conoscenti di ciascuno potrebbe scegliere l’ex manager montezemoliano, e qualcuno ogni tanto esplodeva in un “ah sì, ecco!” tutto contento perché gli era venuto in mente una collega, un amico di un amico, magari una zia attivista radicale che seguirà le indicazioni della Rosa nel pugno, ora schierata con Calenda.

Un sondaggio recente invece attribuisce all’ex ministro un buon risultato, addirittura a due cifre, che poi è quello che ha preso un paio di volte Alfio Marchini (ve lo ricordate?), il quale pure tappezzava la città di se stesso e si rivolgeva – a occhio – allo stesso elettorato, quelli che “la politica ormai è solo know how tecnico manageriale“, non ideologia ma nemmeno visione sociale.

Come Calenda userà poi questo tesoretto di voti, se davvero lo incassa, è cosa sua.

Al ballottaggio invece andrà il fasciogladiatore Enrico Michetti, il “prof prof prof” di Radio Radio che tra l’altro farà il pieno di taxisti, oltre che di nostalgici dell’Impero romano sui cui fasti e tasti il candidato di destra batte ogni santo giorno.

La lotta per il secondo posto – quindi per il ballottaggio contro Michetti – sarà infine cosa tra Gualtieri e Raggi, un altro ex ministro e la sindaca uscente.

Il primo per ora non è pervenuto se non nella moscissima campagna per le primarie del centrosinistra, i cui concorrenti vengono simpaticamente definiti i “sette nani“, data la loro statura politica non esattamente globale.

Raggi invece, dopo essersi imposta perfino su Conte e Zingaretti pur di ritentare la corsa al Campidoglio, ora punta sull’immagine di una città che sta rinascendo nonostante i media e l’establishment per liberarsi di lei ogni giorno pubblicano malevolmente foto di monnezza, voragini d’asfalto e cinghiali sulla Cassia.

Onestà intellettuale porta a dire che dopo un inizio disastroso, Raggi ha probabilmente fatto il possibile, diverse strade sono state riasfaltate, piazza Venezia non è più la Parigi-Dakar, i cassonetti dei rifiuti sono a livelli fisiologici e non dissimili da quelli degli ultimi venti o trent’anni.

Ma grandi slanci non ce ne sono stati, no, a ogni piovasco i tombini si intasano come prima, né di più né di meno, le famose ciclabili sono solo strisce di gesso disegnate sui marciapiedi, che il più delle volte finiscono nel nulla. E le mirabolanti promesse a Cinque stelle del 2016 è meglio non andarle a guardare perché il retrieval sarebbe impietoso.

Se si cambierà sindaco, insomma, lo si farà più che altro per divertirsi, per scacciare la noia, nessuno pensa davvero che né il Gladiatore né il più noto dei Sette nani piddini cambieranno alcunché, alla fine, come sempre.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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    L’Atlante italiano dei morti (e dei feriti gravi) in bicicletta, la più completa mappatura dell’incidentalità ciclistica in Italia finora mai realizzata (gratis e consultabile a questo link: https://craft.dastu.polimi.it/it/articles/15) è il risultato di uno studio del Competence Centre on Anti-Fragile Territories (CRAFT) del Politecnico di Milano. Quattro Dashboard offrono un’analisi degli incidenti ciclistici su base ISTAT 2014-2023 in ogni singolo comune italiano e i dati possono essere consultati per province, regioni e aggregazioni spaziali libere. La quinta Dashboard consente di visualizzare la localizzazione degli incidenti con le coordinate utili alla geolocalizzazione degli incidenti. Paolo Bozzuto, docente del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - DAStU, coordinatore del progetto: “Geolocalizzare e mappare tutti gli incidenti ciclistici è un cambio di paradigma per l’analisi dell’incidentalità ciclistica in Italia è diventa uno strumento di conoscenza e pianificazione per contribuire a ridurre gli incidenti”.

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    L’associazione Assorimap, che riunisce gran parte degli impianti italiani di riciclo della plastica, ha annunciato il loro blocco immediato denunciando “mancate misure urgenti per salvare il comparto”. A ottobre l’organizzazione aveva avuto due incontri con il Governo. Da mesi Assorimap parla di un crollo del fatturato e degli utili del settore, dando la colpa a questioni come i costi dell’energia e la concorrenza della plastica importata da paesi esterni all’Unione europea, che sarebbe venduta a prezzi insostenibili per gli impianti italiani. Mattia Guastafierro ne ha parlato con Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.

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