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Mia cara Olympe

Wembley e il calcio delle ‘signorine’

A me il calcio piace.  Mi piace da quando mio padre, fortunato genitore di tre femmine, decise di portarmi allo stadio, scegliendo me tra le figlie. Ho condiviso con lui un’infinità di domeniche pomeriggio che cominciavano un paio d’ore prima della partita  – si andava presto e si lasciava la macchina lontano per evitare l’ingorgo all’uscita e non perdere la voce di Sandro Ciotti – e finivano a casa con la cioccolata calda, il secondo tempo di una partita di serie A – noi militavamo coraggiosamente tra B e C – e la malinconia del lunedì che si approssimava. Molti anni dopo, per una partita decisiva della Reggina per la promozione in A, ho preso un aereo e sono scappata allo stadio: mio padre non c’era più e volevo esserci io. In serie A, quella volta, ci siamo andati, ma non rimasti.

Poi mi piace e mi commuove vedere la Nazionale quando gioca in paesi di forte emigrazione italiana: a Londra, come sarà domani per la finale con l’Inghilterra, a Monaco com’è stato in questi campionati europei. Guardo i tifosi soffrire sugli spalti e penso alle loro vite e mi vengono in mente cose che non condivido del tutto: come sa di sale lo pane altrui, le radici e via dicendo. I miei figli mi prendono in giro e dicono che mi commuovo per i giovani broker della finanza pieni di soldi, pensando che siano parte del nuovo proletariato globale sradicato dal capitalismo cattivo. Sono cinici.

Il calcio mi piace tutto: quello ‘grande’ dei campioni – geometrie, velocità, pathos – e quello dei piccoli all’oratorio o dei ragazzi al campetto. In questo sono stata contagiata dalla felicità di mio figlio ogniqualvolta tocca un pallone: ha cominciato a quattro anni e non ha smesso. L’ultimo ricordo di Londra, prima della pandemia, è la sua partita con gli altri ragazzi dell’Inter club in un campo sotto un enorme cavalcavia. C’era un pezzo di mondo lì, vedi paragrafo precedente: loro vincevano e se le davano con i francesi del club del Paris Saint Germain, accanto c’era un accesissimo match tra sudamericani.

Il calcio a un certo punto mi ha stancato: ce n’era troppo, troppa enfasi, troppa televisione, troppo ne parlavano, persino a distanza, i maschi di casa, e poi tutto quel che sappiamo, troppi soldi, schifezze varie, insomma basta. Niente stadio da molti anni, solo qualche occhiata distratta alle partite in tv, meglio una serie, un libro, un’altra stanza.

E poi, invece, sono arrivate le ragazze. Due anni fa, ai mondiali. Sara Gama, Barbara Bonansea, la loro straordinaria allenatrice Milena Bartolini. Ricordate che bella impresa, che gioco, che intelligenza, che misura dentro e fuori dal campo. E io mi sono innamorata di nuovo e ho tifato di nuovo. Ho riscoperto una passione, che regalo. E  a Wembley, come tanti, soffrirò, penserò al pane altrui e mi commuoverò. (Forse persino sentendo l’inno, ma farò finta di niente.)

 

 

 

 

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Mia cara Olympe

Violenza di genere, parliamo di soldi

Nei giorni che ci hanno restituito lo strazio dei genitori di Chiara Gualzetti, neanche sedici anni, uccisa da un coetaneo,  e in  cui si cerca ancora il povero corpo di Saman Abbas e l’Interpol si è attivata per arrestare i genitori ovunque siano (e il ruolo della madre, in questa ed altre vicende simili, mi appare uno dei nodi più dolorosi e problematici), nella settimana che vede  la Turchia uscire dalla Convenzione di Instanbul e le proteste delle donne qui e lì, sulla casella di posta arriva una mail che parla di sodi. Di tanti soldi.

Mittente è l’Eige, l’European Institute for Gender Equality,  che dopo aver documentato in un apposito rapporto l’aumento della violenza  nelle relazioni intime durante la pandemia di Covid19,  adesso ci offre un numero, pesante, sul quale riflettere. Il costo della violenza di genere, calcola l’istituto, in tutta l’Unione è di 366 miliardi di euro all’anno. La violenza contro le donne rappresenta il 79% di questo costo ed è dunque pari a 289 miliardi di euro. Ancora, nota l’Eige,  la violenza esercitata del partner, cresciuta durante la pandemia di Covid-19, rappresenta quasi la metà (48%, 174 miliardi di euro) del costo  complessivo della violenza di genere e la violenza dei partner contro le donne rappresenta l’87 % di questa somma (151 miliardi di euro).

Ricordate la polemica seguita all’articolo del Sole 24 ore che si avventurava in una tanto sbagliata quanto spericolata equiparazione tra femminicidi e omicidi di uomini? Aveva provocato dure reazioni e rettifiche anche all’interno del quotidiano – ne racconta qui  l’articolo dal sito di Giulia –  e, ce ne fosse bisogno, viene ora smentito anche dalla forza inequivoca di questi numeri. E se, come dice Carlien Scheele che dirige l’Eige , ‘la vita umana, il dolore e la sofferenza non hanno prezzo’  è importante conoscere quanto, come e dove si spende e quanto si perde a motivo della violenza per indirizzare meglio i fondi – troppo pochi sottolinea il rapporto – e  tutelare  maggiormente le vittime. Solo lo 0,4%  di questo denaro per esempio viene investito in servizi come i rifugi per le vittime di violenza:  non basta, perché, ancora Scheele, prevenzione e tutela rispondono non solo ad un ‘imperativo morale’, ma anche ai dettami di un’economia intelligente, nel senso che diminuire il tasso di violenza ha come effetti non disperdere le energie umane e professionali delle vittime, ma ha anche far risparmiare alle casse pubbliche cifre ingenti. Ed ecco il dettaglio dello studio, realizzato su dati inglesi provenienti da servizi pubblici come dalle forze dell’ordine e dal settore della giustizia:  il costo maggiore deriva dall’impatto fisico ed emotivo (56 %) sulle vittime, seguito dal peso economico della giustizia penale (21 %) e dalla perdita di produzione economica (14 %), intendendo con questo ultima voce, per esempio, le assenze dal lavoro. Altre voci riguardano  il costo della giustizia civile (separazioni, divorzi e procedimenti di affidamento dei figli), l’aiuto abitativo e la protezione dei minori, vittime di violenza assistita. Ascolteranno i governi le ragioni del portafoglio più di quelle morali? Seguiranno, come caldamente raccomanda l’Eige e detta la Convenzione di Instabul, l’esempio inglese e raccoglieranno molti più dati di quanto oggi non facciano? La risposta è affidata al futuro, ma di certo avere una radiografia dei costi serve a conferire un’ulteriore dimensione all’impatto devastante e complesso che la violenza di genere ha sulla vita di chi la subisce.

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Breaking Dad

La Semifinale, le chat e il naso di Chiellini

“Papà, io non li guardo: ho troppo sonno, vado a nanna”.

Il messaggio arriva subito dopo il fischio finale di Italia-Spagna. Fabrizio è in montagna con i nonni. Durante la partita, fino al novantesimo, ci siamo scambiati esultanza, delusione, giudizi e patemi via chat. Adesso, povero piccolo, non ce la fa più: i supplementari non li guarderà, così mi ha detto.

Il fratello, Francesco, invece è off limits: è anche lui in montagna, ma per un campus che – giustamente – vieta tassativamente i telefoni. Le comunicazioni arrivano dal responsabile, via chat, ovviamente. Questa delle chat dei figli e delle loro attività è una tassa che ogni genitore al giorno d’oggi deve pagare. La scuola, il calcio, la musica; i genitori della scuola, quelli del calcio, quelli della musica. E i sotto-gruppi, poi: i genitori della scuola che organizzano merende, quelli del calcio che si conoscono meglio tra loro, il maestro di coro e l’insegnante di chitarra.

Bello, eh, tutti connessi, le informazioni che girano, tutto sotto controllo. Anche i saluti e i ringraziamenti: GRAZIE – GRAZIE MILLE – GRAZIE A TE – OK CIAO – CIAO – CIAO A TUTTI – CIAO – GRAZIE ANCORA – OK – CIAO [faccina – faccetta – pollice su…]

Gli Europei sono un grande appuntamento per papà-con-figli-maschi. Anche se il pallone non è la passione più forte, anche se – in tempi normali – alla partita si preferisce spesso la serie Tv o il giro in bici. Ma la Nazionale, quando comincia ad avanzare nel torneo, a vincere, è un richiamo irresistibile.

Una cosa nuova che ho notato è che, anche durante il match, per i due ragazzi è scontato informarsi continuamente – via Google – praticamente di qualsiasi cosa. Così, se tu commentando un’azione dici, che ne so, “forte quel tipo ucraino, non lo conoscevo…”, in cinque secondi loro googolano e ti fanno: “eh, sì, è Vladimir Scatushenko, quest’anno giocava nel Dombrovski e ha segnato 18 goal, è alto un metro e ottanta e pesa 75 kili”. Ah, ecco, mi pareva di conoscerlo…

Se non li fermi, vanno avanti e ti ricostruiscono tutta la carriera del carneade ex sovietico. La nostra unica fonte di informazione in proposito – ai tempi – erano le figurine: se eri bravo potevi memorizzare la faccia dei calciatori e, se poi eri veramente un pozzo di scienza, ti facevi regalare l’almanacco dove trovavi tutto quello che ti serviva per fare un figurone. Ma era una cosa un po’ da nerd, a dire la verità.

Comunque, quello che non è cambiato è la ricerca dell’assetto ideale per vedere una partita importante. Quello reso immortale da Fantozzi prima di essere costretto ad andare al cineforum. Frittatona, eccetera, eccetera. Nel nostro caso, il kit-partita comprende: hamburger (“con la sottiletta, vero, papà?”), dolcetto da consumare nel corso dell’incontro, apparati tecnologici – come detto – per essere sempre sul pezzo, birra per me, succo di frutta e/o tè freddo per loro. In più, in caso di partita serale, c’è una manovra da compiere. Un accorgimento che ti porta in tribuna-vip.

L’apertura del divano, che con un rapido movimento diventa un letto a due piazze. Comodo, confortevole come un posto di lusso allo stadio. E così ce ne stiamo lì, spaparanzati, a commentare e – se del caso – esultare o protestare contro l’arbitro o i piedi storti di qualcuno.

Per la Semifinale degli Europei Fabrizio si era procurato tutto il necessario per fare il tifo come si deve. Dalla montagna è arrivata – alla vigilia – ampia documentazione fotografica: bandiera, trombetta tricolore e tatuaggio posticcio (sempre tricolore). Anche i nonni – benché normalmente appassionati al pallone quanto al curling – erano coinvolti nella festa calcistica. E’ la Nazionale. Ed è il nipotino.

Ed ecco, ci siamo. Chat bollente.

Ore 22.16: GOOOOOL [faccine, bandierine, palloni, ecc.]

Ore 22.32: PAPA’, SECONDO ME IL PORTIERE DELLA SPAGNA E’ SCARSO

Ore 22.33: VERRATTI SCARSO, BONUCCI GRANDE PARTITA

Ore 22.35: GRANDE CHIELLINI (MA CHE NASO C’HA??? SEMBRA IL TUO!!!) [faccine varie]

Ore 22.36: GOL SPAGNA. NO!!!!!!!!

 

Poi, il fischio finale e quella resa, così tenera: sono stanco, vado a nanna. E invece…

Alle 23.45 suona il telefono: “ABBIAMO VINTOOOOO!!! FINALE!!!! PO-PO-PO-POOOO!!!!”. Fabrizio ha resistito. Fino all’ultimo rigore, proprio come l’Italia.

Dalla chat dei genitori del campus di Francesco (poteva non esserci?)  – intanto – arrivano messaggi di esultanza: sappiamo che i ragazzi hanno visto la partita tutti insieme ed è una cosa molto bella.

Vado al balcone con il telefono in mano e Fabrizio in linea: gli faccio sentire i clacson della gente che festeggia per le strade.

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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L'Ambrosiano

Il dio mercato esige sacrifici umani. Vaccino anti-idoli cercasi. E politica

Gianetti Ruote dice poco al pubblico. Eppure i pacchi di Amazon, Atm e linee dei pendolari son resi possibili da tir, camion, bus che a Ceriano Laghetto alla ditta Gianetti trovano ruote in acciaio. Con l’economia in “ripresa e resilienza” anche i cerchioni avrebbero dovuto tornare a correre; di parere diverso la proprietà. Sabato a impianti chiusi ha spedito una mail ai 152 dipendenti: «Tutti a casa».

Dopo l’8 settembre (il Paese ha già avuto una “rotta”) cominciò la Resistenza. Allora c’erano idee, voglia di riscatto, un nemico identificato. I padroni oggi non han volto; non le fattezze di Giulio Gianetti che nel 1880 fondò l’azienda, né di un erede. Come in altre ditte di Lombardia, Italia, Europa delle persone decidono, ma sembran fantasmi, non han lineamenti, emozioni, relazioni con altre persone dotate di testa, cuore, legami. Si chiamano Fondo: realtà fattuale, ma interlocutore virtuale.

Nella globalizzazione il dio Mercato ha una casta sacerdotale che schermata venera i suoi idoli, principe ne è il Profitto, celebra i riti festosi della moltiplicazione dei guadagni, predica la dottrina liberista, sposta con un clic capitali puliti, alleva esorcisti per rendere altri presentabili, via web serra impianti che aiuti pubblici lo hanno pregato di salvare e li sposta ove altri enti pubblici offrono altri incentivi. Lo spezzatino istituzionale di Europa, nazioni (un’Italia priva di politica industriale), enti locali (amministratori in cerca di consensi) è brodo di coltura del dio Mercato, gli fa attirar risparmi privati o d’istituti finanziari non sempre curiosi delle origini di ricchi utili.

Coi suoi culti propiziatori il dio Mercato non ha però previsto il Covid. Nelle tante Ceriano Laghetto ripropone i riti del “tutti a casa”, cui rischian di rispondere scontate politiche europee, nazionali, locali. Ma la pandemia ha svegliato coscienze. Qualcuno forse già ricerca vaccini anti-idoli. La speranza che ci si possa immunizzare dal profitto la tengono viva consapevolezza e responsabilità d’ognuno: diventano etica pubblica, sogno condiviso. Questo può costringere la politica al dovere d’esser servizio agli altri, svelare gli altarini degli idoli, vedere e correggere le ingiustizie, programmare, governare. Utopia? Che sia!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Piovono Rane

Vittorio Feltri e una mandria di bufale

Volentieri ripubblico, per chi è interessato, un breve pezzo che scrissi nel 2009 sul signore che da ieri è il capolista di Fratelli d’Italia a Milano. Poi è solo peggiorato, scivolando direttamente nel genere “Raggi patata bollente” e “Bastardi islamici”.  

____

La prima patacca accertata è del 1990, ai tempi in cui Vittorio Feltri dirige “L’Europeo”: un’intervista sul rapimento Moro a tale Davide, “carabiniere infiltrato nelle Br” che avrebbe fatto irruzione nel covo di via Montenevoso.

E’ un racconto “esplosivo” su presunti memoriali e audio di Moro dalla prigionia, con tanto di dettagli erotici sui brigatisti Franco Bonisoli e Nadia Mantovani sorpresi nudi a letto. Peccato che sia tutto falso, dalla prima all’ultima riga, e il “Davide” in questione non esista neppure.

Nasce così, quasi vent’anni fa, il fenomeno Feltri: un misto di bufale (come quella su Alceste Campanile “assassinato da Lotta Continua”, mentre è stato ucciso da Avanguardia nazionale), rivalutazioni del fascismo (“Peccato che a scuola si continui a studiare la Resistenza”) e linguaggio da bar (vale per tutti il titolo sul calcio negli Usa: “Agli uomini piace, alle donne no, ma i negri non lo sopportano”, da cui si deduce che i “negri” non appartengono alla categoria né degli uomini né delle donne.

Nel ’92 Feltri è contattato da Andrea Zanussi, editore de “L’indipendente”, al quale spiega (testuale) che il quotidiano “ha bisogno di una bella iniezione di merda”. Detto, fatto: è il periodo di Mani Pulite e lui lo cavalca proponendo titoli come “Cieco, ma i soldi li vedeva benissimo”, riferito a un presunto tangentista non vedente.

Segue un falso scoop sulla morte di Pinelli, un attacco a Indro Montanelli (“è arrivato il tuo 25 luglio”), e il linciaggio di Norberto Bobbio (“mandante morale dell’omicidio Calabresi”), più un po’ di insulti alla Guardia di Finanza (che in quel periodo stava indagando sul Cavaliere).

Quasi inevitabile nel ’94 la promozione al “Giornale”, appena lasciato da Montanelli. Qui Feltri si fa riconoscere subito per i titoli farlocchi tra cui un mitico “La lebbra sbarca in Sicilia, contagiati a Messina quattro italiani” (vero niente). Notevole anche “Berlusconi vende la Fininvest”, così come la patacca sui miliardi di Milosevic “trasportati in sacchi di juta dalla Serbia all’Italia”.

Altrettanto sballate le accuse ai giudici Piercamillo Davigo e Francesco Di Maggio di essere soci in una cooperativa edilizia con Curtò e Ligresti.

Non mancano nuove “inchieste” revisioniste sul fascismo, come quella sull’attentato di via Rasella corredata da una foto falsificata della testa di un bambino staccata dal tronco: la cosa arriverà alla Cassazione, che nell’agosto 2007 condannerà il direttore parlando di un “quadro di vere e proprie false affermazioni”.

Avanti così, e nel ’95 Feltri si inventa che “la scorta del presidente Scalfaro ha sparato a un elicottero dei pompieri” (pura fantasia, ma è il periodo dello scontro politico fra il Quirinale e Berlusconi).

Di due anni dopo è un’intervista taroccata a Francesco De Gregori contro il Pci, un pezzo per cui il cantante porta Feltri in tribunale ottenendone la condanna.

Sempre nel ’97 una nuova – più grave – patacca costa a Feltri il posto: è quella sul presunto “tesoro” di Antonio Di Pietro, cinque miliardi di lire che l’ex pm è accusato di aver preso da Francesco Pacini Battaglia. Dopo parecchie querele, alla fine è lo stesso direttore a dover ammettere che si tratta di “una bufala”.

Segue per Feltri un periodo al “Borghese” e al gruppo Riffeser, fino alla fondazione di “Libero”, dove chiama a scrivere il puparo di Calciopoli Luciano Moggi e l’ex agente del Sismi Renato “Betulla” Farina.

Per lanciarsi, il quotidiano ha bisogno di fuochi artificali: di qui la falsa notizia che un centro sociale milanese è un covo dell’Eta basca, di qui uno “scoop” su Donna Rachele titolato “Mussolini era cornuto”. Poi arrivano le surreali accuse a Sergio Cofferati per l’omicidio Biagi (“La Cgil indica i bersagli da colpire”) e un altro falso scoop su Berlusconi (“Vuole lasciare la politica”).

Ma non basta, e allora Feltri parla di pedofilia pubblicando cinque foto di preadolescenti nudi in pose inequivocabili (con conseguente radiazione dall’Ordine, poi tramutata in “censura”). Di questa fase resta però ai posteri soprattutto l’elegante prima pagina con un disegno di Prodi nudo a quattro zampe e con il sedere alzato, pronto a farsi sodomizzare da un tappo di champagne con la faccia di Berlusconi.

Richiamato in agosto al “Giornale”, Feltri parte subito con la campagna più desiderata dal suo editore, puntando a tre obiettivi: intimidire i giornalisti non allineati (occhio che se critichi il premier ma poi paghi la colf in nero o non versi gli alimenti all’ex moglie, io lo scrivo in prima pagina); livellare tutti nel fango per provare che Berlusconi non è peggiore di chi lo attacca, in base al “così fan tutti” autoassolutorio; far fuori quanti nella Chiesa osano criticare il premier.

Così in poche settimane “il Giornale” diventa una fabbrica di linciaggi in serie: da Eugenio Scalfari a Enrico Mentana, da Gustavo Zagrebelsky a Concita De Gregorio, da Dino Boffo a Ezio Mauro, fino a Ted Kennedy e Gianni Agnelli (a Feltri infatti piace sparare anche sui morti).

A proposito: negli ultimi anni di vita, Indro Montanelli diceva che non riconosceva più il suo “Giornale”, gli sembrava “un figlio drogato”. Viene da chiedersi cosa avrebbe detto se avesse visto Feltri all’opera dopo.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

    Poveri ma belli - 11-11-2025

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    La leggenda del soul Mavis Staples raccontata dal suo produttore Brad Cook

    È uscito “Sad and Beautiful World”, nuovo disco della leggendaria Mavis Staples. Giunta all’età di 86 anni e con oltre settant’anni di carriera alle spalle, l’artista di Chicago dimostra di avere ancora tanto da condividere con il mondo. Da Leonard Cohen a Frank Ocean, da Kevin Morby a Tom Waits, muovendosi tra generi e decenni diversi, Mavis Staples fa quello che sa fare meglio: reinterpretare brani noti al grande pubblico facendoli suoi in un modo unico e inconfondibile. “Le canzoni di Mavis parlano di amore ed empatia” - spiega il produttore dell’album Brad Cook ai microfoni di Radio Popolare - “e nei tempi che viviamo non potremmo averne più bisogno”. L’intervista di Claudio Agostoni.

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    Vieni con me è una grande panchina sociale. Ci si siedono coloro che amano il rammendo creativo o chi si rilassa facendo giardinaggio. Quelli che ballano lo swing, i giocatori di burraco e chi va a funghi. Poi i concerti, i talk impegnati e quelli più garruli. Uno spazio radiofonico per incontrarsi nella vita. Vuoi segnalare un evento, un’iniziativa o raccontare una storia? Scrivi a vieniconme@radiopopolare.it o chiama in diretta allo 02 33 001 001 Dal lunedi al venerdì, dalle 16.00 alle 17.00 Conduzione, Giulia Strippoli Redazione, Giulia Strippoli e Claudio Agostoni La sigla di Vieni con Me è "Caosmosi" di Addict Ameba

    Vieni con me - 11-11-2025

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    Volume di martedì 11/11/2025

    La nuova e inattesa collaborazione tra Charlie Xcx e John Cale nel brano "House" e l'intervista di Claudio Agostoni a Brad Cook, che racconta il nuovo album prodotto per la leggenda del soul Mavis Staples. A seguire un piccolo omaggio a Giulia Cecchettin, il quiz della settimana dedicato al film "Gli Intoccabili" di Brian De Palma, e la notizia dei Chemical Brothers ai Magazzini Generali di Milano il 22 novembre.

    Volume - 11-11-2025

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