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Palazzeide

Un calzino per i Cinque Stelle

Lo potremmo chiamare ‘l’editto del calzino o della scarpa’, parafrasando quello più grave di berlusconiana memoria. Beppe Grillo impone alle televisioni le regole e le condizioni perché i parlamentari Cinque stelle, che insiste a chiamare portavoce, possano continuare a partecipare ai loro talk show.

“Chiediamo che…”, iniziano così i vari punti del decalogo apparso sul suo blog: “chiediamo che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l’attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti espressi”.
Quella del calzino sembra quasi una mania, quasi che verificando se si tratta di calza lunga o corta, di colore pastello o grigio, questo dovesse denotare chissà quali giudizi sulla persona.

Ne ha fatto uso spregiudicato una Tv di Mediaset tanti anni fa, inseguendo con le telecamere il giudice della sentenza Cir Fininvest Raimondo Mesiano fino alla poltrona del barbiere e inquadrando i calzini turchesi, commentando e facendo ironie su quel colore, come ad intendere che chi porta un calzino così non può firmare sentenze importanti, soprattutto se di condanna verso il proprietario della Tv che ha ordinato il servizio. Tornando a Grillo, il decalogo o meglio le condizioni per poter avere in studio un parlamentare Cinque stelle si arricchisce anche del divieto di interromperlo mentre parla, “che siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzione di sorta per il tempo che si vorrà concedere e con uguale regola per il diritto di replica”.

Una specie di tribuna elettorale del passato, rivalutate negli ultimi tempi per la loro sobrietà, brevità e chiarezza nelle risposte, in sé questo tipo di informazione politica non sarebbe un male, le arene televisive a volte lasciano un senso di incomprensione e confusione che genera fastidio in chi ascolta, ma qui si tratta di puntare il dito contro il presunto colpevole, di cercare sempre il capro espiatorio, e molto spesso per Grillo il colpevole è il giornalista.

Nel suo blog Grillo inserisce questo nuovo approccio parlando di ‘transizione MiTe”, un probabile e forse voluto doppio senso, da un lato è il motivo principale del loro ingresso nel governo Draghi, la transizione ecologica, dall’altra è la ‘mitezza’ del fondatore dei Cinque stelle, che per due anni ha cercato di spegnere gli incendi causati dal governo con il Pd prima e ora addirittura con il banchiere Draghi, ma è evidente che il governo con tutti genera dei contraccolpi.

Non è un caso che ad ogni snodo complicato della vita dei Cinque stelle c’è anche un metodo nuovo di partecipazione in Tv. Grillo la televisione e i suoi meccanismi di consenso li conosce molto bene, l’ha fatta per tanti anni diventandone una star e quindi sa di che parla. Impone, vieta e concede, cedendo alla vanità di molti parlamentari che grazie anche alla Tv sono diventati popolari e leader del Movimento. Di Maio e Di Battista sono tra questi.

Nei quasi dieci anni di vita parlamentare i Cinque stelle sono passati dal no assoluto in Tv, Marino Mastrangeli fu la prima vittima, cacciato dal Movimento con il voto on line degli iscritti perché era andato negli studi di Barbara D’Urso, fino alla furba regola di intervenire dall’esterno per non mischiarsi con tutti gli altri. Chi doveva o non doveva andare a farsi intervistare lo decideva spesso Rocco Casalino, “chiedete a lui”, i giornalisti si sono sentiti rispondere così decine di volte.

Poi ad un certo punto tutti in televisione, a Porta a Porta, nelle tv pubbliche e private, imparando sul campo a destreggiarsi come fosse un ring, con risultati che sono diventati cult, come Laura Castelli e il suo “questo lo dice lei” rivolto all’ex ministro dell’economia Padoan.

Ora c’è una nuova fase delicata nella vita del Movimento, Conte sta per prenderne la guida ma ancora non si sa cosa vorrà fare, al tavolo del governo i ministri cinque stelle devono sedersi insieme a Forza Italia, Lega e Pd, oltre a Draghi naturalmente. Tutti alleati, con i quali è difficile, anzi vietato litigare in Tv, e allora si deve scegliere se andare, non andare, oppure una via di mezzo per non soccombere. Ed è propria questa la soluzione, l’editto del calzino e della scarpa. Bisogna vedere se le tv accetteranno oppure faranno finta di niente e continuerà esattamente come ora.

  • Anna Bredice

    A Roma con il cuore, una figlia e la testa, a due passi dai tetti belli di Garbatella e dal Gazometro di Ostiense, atmosfere tra Ozpetek e il caffè sospeso di Casetta Rossa. A Milano con gli affetti, la famiglia e la radio della vita. Seguo la politica per Radio Popolare da tanti anni, con impegno, partecipazione, a volte rabbia e passione.

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Urlando furiosa

A la guerre!

Ariosto ha lavorato al suo capolavoro per trentacinque anni, revisione, aggiunte e digressioni.
Io dopo la prima riga non so già più come andare avanti.
Sicuramente perché non sono un genio come Ariosto.
Oltre ad essere un genio lui aveva la sorte di essere uno scribacchino di corte, un lavoro che non amava molto.
Forse per questo che si rifugiava nelle sue fantasie scrivendo il suo Orlando.
Aveva bisogno di un sogno altro per poter esprimere i suoi pensieri e dar vita al suo immaginario che diversamente non avrebbe potuto esprimere.

Contraddizione d’artista comune ancora ai nostri tempi.
Mi sono ritrovata spesso alle prese con trasmissioni mainstream e desideri opposti che mi toglievano il sonno.
Così una notte mi ha svegliato lei: Urlando Furiosa.
Non mi ha svegliato furiosa, e neanche urlando, mi ha svegliato incalzandomi di richiami, ostinata come un martelletto, lei rintoccava nella mia testa ricordandomi che avevo perso la ragione per fare le cose, che avevo perso il senno.
Mi richiamava a me stessa.

Dal primo momento in cui l’ho sognata Urlando ha cominciato a vivere, e le nostre vite coincidono ma non alla perfezione ed è proprio in quella sottile e lieve imperfezione che lei gioca e prende vita, o forse la prendo io.
“À la guerre!”
À la guerre per cosa? Per quali cause? Mossa da quali ideali? C’è ancora qualcosa che ci unisce che non sia la terribile lotta contro il virus? C’è ancora un posto dove donne e uomini si alzano in piedi per far sentire la propria voce che non sia un’assemblea condominiale?
Da giovane me le segnavo tutte le date sul calendario, ero la paladina del 25 aprile, 1 maggio, 23 maggio, 19 luglio, 12 dicembre…celebravo più stragi che compleanni.

E adesso cosa sono quei giorni cerchiati? Il pagamento della tari? Il colloquio con i professori di mio figlio? Il ritorno miracoloso del ciclo? La prenotazione del tampone?
Dove sono finiti i miei compagni di battaglia? Quelli con cui occupavo le case, facevo controinformazione, urlavo in corteo “fantasia al potere”?
Stanno in una villetta bifamiliare nella Brianza, con tre figli, la suocera accanto, un cane preso durante la pandemia pur di uscire di casa, e la domenica pomeriggio avvolti nelle loro tute acetate con lo spiedino caldo di barbecue berciano “fantasia al podere”.
Eppure qualcosa mi dice che ha ragione Urlando, che mi sveglia ogni notte per invogliarmi ad uscire dal mio piccolo regno sicuro , che mi sprona a tentare l’impossibile perchè altrimenti sarà solo ciò che ci sembra possibile a tentare noi.

Se non abbiamo destrieri, montiamo in sella a biciclette.
Se non abbiamo armature, usciamo con il pigiama di flanella che incute più timore.
E non sappiamo se la ragione che ci sembra perduta la ritroveremo sulla Luna , come racconta Ariosto, non importa neanche se riusciremo mai ad arrivarci come fece Astolfo, ma tutti gli ostacoli e le peripezie che affronteremo di sicuro daranno forma alla nostra esistenza.
E se questo mio sentire fosse sbagliato? Non importa, e poi i paladini si sa, sono erranti per natura.
“À la guerre!”
Disse Urlando senza più voltarsi indietro.

  • Rita Pelusio

    Attrice e regista, nei suoi lavori con la drammaturgia di Domenico Ferrari utilizzano il linguaggio dell’arte comica per affrontare tematiche sociali e civili. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche. E’ amica di Radiopopolare con la quale si sveglia ogni mattina.

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Piovono Rane

Piovono radio

Dove eravamo rimasti? Per chi ha avuto la gentilezza di seguirmi da anni, eravamo rimasti all’Espresso e al suo primo Piovono rane.

Rieccoci qui insieme, per chi è interessato.

Il blog è senz’altro uno strumento “vecchio” – vent’anni nella comunicazione digitale sono un’enormità – ma come la radio non è stata uccisa dalla tivù, così i blog conservano una forza e una profondità che vanno oltre il contenuto breve e immediato dei social network.

E anzi i social network sono vetrine di quelli che nacquero come “diari on line” e ora sono sempre di più articoli, seppure in soggettiva e opinati, insomma una forma di giornalismo autonoma e diversa da tutte le altre. Non è che il New York Times abbia rinunciato ai suoi perchè esiste Twitter.

E anche Radio Popolare, presidio di democrazia e di confronto, ha i suoi blog.

Ah, a proposito, non sono venuto a questa radio per uggia verso L’Espresso, sia chiaro. Ci ho passato ottimi e liberi anni. Anche se, non ho problemi a dirlo, il passaggio di proprietà alla FCA non mi ha fatto felice ed è stata una concausa della mia decisione, ammesso che questa cosa interessi a qualcuno.

Ma sono venuto qui soprattutto per amore di questa radio e della sua libertà. A Rp del resto ho iniziato pischello, nei primi anni 80, e qui mi piacerebbe dare un senso alla mia parabola professionale.

Quando ho messo piede per la prima volta nella sede di via Pasteur la radio era nata da pochi anni – era il 1976. E credo sia giusto ma soprattutto utile partire da lì, dalle radici, per provare a immaginare il futuro.

In quel periodo, quello in cui Radio Popolare è nata, si mescolavano infatti elementi diversi che avrebbero caratterizzato i decenni successivi e ci indicano dunque il “voi siete qui”, ci dicono il punto in cui ci troviamo e quindi la direzione verso cui andare.

Da un lato negli anni ’70 ci sono infatti i movimenti della sinistra, del cambiamento popolare ed egualitario, da cui (anche) questa radio è nata.

E ci sono le leggi o gli eventi che ne conseguono e che sono in gran parte rimasti patrimonio prezioso del paese.

Qualche esempio, per i più giovani: nel 1973, le 150 ore per il diritto allo studio. Stesso anno, legge sull’obiezione di coscienza al militare. 1974, il referendum sul divorzio. 1975, il nuovo diritto di famiglia. 1975, elezioni amministrative e nascita delle giunte di sinistra in molte grandi città tra cui Milano. 1976, legge sull’aborto. 1977, Dario Fo torna in Rai dopo la lunga censura. 1978, istituzione del Servizio sanitario nazionale. Sempre 1978, approvazione della legge Basaglia, che mette fine alla vergogna dei manicomi.

Per dirne solo alcuni, naturalmente, di eventi e di passi in avanti di quel periodo.

In quella stessa fase, però, in modo meno visibile, nel mondo succedono anche altre cose, di segno opposto o comunque molto diverso.

Ad esempio nel 1975 Margaret Thatcher prende la guida dei conservatori inglesi: quattro anni dopo diventerà premier del Regno Unito. Nel 1978 il governo golpista di Pinochet chiama a gestire l’economia del Cile i “Chicago boys”, gli allievi di Milton Friedman che iniziano a sperimentare in America Latina il modello economico che negli anni Ottanta verrà implementato in modo più ampio nel pianeta dalla stessa Thatcher e da Ronald Reagan.

Insomma la metà dei ’70 è anche il periodo in cui nasce quella che diventerà l’egemonia culturale della destra economica, il “There is No Alternative” di Thatcher, che dopo la caduta del Muro porterà alla teoria di Fukuyama secondo cui la storia era finita.

Nel 1976 questa radio nasce dunque all’interno di un’ondata di emancipazione popolare, diciamo pure di movimento verso sinistra, ma mentre già stanno germinando le ideologie e gli strumenti con cui il processo si sarebbe in pochi anni invertito, portando all’egemonia culturale liberista e alla lotta di classe dall’alto verso il basso, con il conseguente affermarsi del dominio di un capitalismo globale, dogmatico, insofferente. «Predatorio», lo chiama Saskia Sassen. E perfino «dinastico», come lo definisce Piketty.

Così dagli anni 80 in poi, nel mondo come in Italia, la destra economica ha giocato sempre in attacco.

E la sinistra?

La sinistra o si è arresa, emulando il suo avversario, oppure si è arroccata, giocando in difesa. Di fronte all’egemonia liberista alla sinistra non è rimasto che o alzare le braccia o tutelare strenuamente i diritti conquistati in passato – “giocare in difesa” appunto.

Per quattro decenni siamo stati, a sinistra, o emuli della destra o difensori delle conquiste del passato.

Credo che sia già abbastanza chiaro che cosa c’entra con tutto questo Radio Popolare.

Perché la radio che vorrei fare insieme a tutte e tutti voi non vuole giocare in difesa.

Del resto è il periodo storico che lo permette, forse addirittura lo impone. Perché i quarant’anni del “There is no alternative” thatcheriano sono naufragati in stessi, sono finiti.

E in questo scenario oggi Radio Popolare si trova di fronte compiti diversi dalla difesa del passato.

Rovesciando sulla destra le accuse che per oltre 40 anni hanno fatto a noi di sinistra: antistorico  è il capitalismo che produce così tanta esclusione sociale e così tante disuguaglianze da divorare perfino se stesso, antistorica è la presunzione di scarnificare in modo infinito le risorse finite del nostro pianeta, antistoriche sono le discriminazioni di genere, di orientamento sessuale o di discendenza etnica, antistorico è il dogma “meno Stato più mercato”, antistorico è pensare di sacrificare al profitto privato la salute pubblica.

E antistoriche, oltre che inumane e grottesche, sono le risposte che alla crisi del capitalismo finanziario vengono proposte dalla destra sovranista che pensa di alzare i muri per tornare al presunto «tempo felice dei nostri nonni», come dice Salvini.

Naturalmente il proposito di contribuire con il proprio mattonicino a un nuovo rovesciamento dell’egemonia culturale apre una quantità infinite di domande. A cui Radio Popolare cercherà di dare risposte confrontandosi quotidianamente non solo con le disuguaglianze e con le esclusioni sociali ma con tutto il reale nella sua complessità: dalle strutture della nuova produzione molecolare e diffusa fino alle dinamiche del capitalismo della sorveglianza, dalla questione di genere a quella ambientale, per dire solo qualche macrotema evidente in cui è necessario immergere ogni giorno le teste e le mani.

Infine, e grazie a chi è arrivato a leggere fin qui.

In Italia dal punto di vista editoriale siamo un po’ tornati, purtroppo, agli anni Cinquanta, quando il  il conformismo mediatico era di un’evidenza solare.

A chi non vuole arrendersi a questo panorama non restano molti spazi, ma questi tuttavia esistono.

Ed è lì che trovate un soggetto editoriale unico in Italia come Radio Popolare, che probabilmente ha inventato nel nostro Paese quello che oggi viene chiamato crowdfunding, cioè un sistema di sostegno economico da parte degli ascoltatori abbonati, azionisti e tesserati.

Gli abbonamenti e le altre forme di sostegno collettivo, insieme a uno statuto e a una governance cooperativa che evita il rischio di scalate esterne, garantiscono a Radio Popolare la possibilità di fare informazione (tra i pochissimi casi in Italia) senza intrecci e senza conflitti d’interessi.

E  quanto più i tempi sono difficili per la pluralità di voci, tanto più è appassionante la sfida. Grazie a quegli “ascoltatori partecipi” che comprendono quanto sono preziose per tutta la società le testate emancipate da un grande editore in conflitto d’interessi. E sostengono collettivamente la nostra radio.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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    Il ricordo del Bataclan, dieci anni dopo la strage: “C’era bisogno di tornare a vivere”

    Sono passati dieci anni da quella notte del 13 novembre 2015, in cui durante il concerto degli Eagles Of Death Metal centotrenta persone persero la vita nell’attacco terroristico che colpì il Bataclan di Parigi. Costruito nel 1864 e dal 1991 dichiarato monumento storico, negli anni il locale ha portato sul palco della capitale innumerevoli artisti internazionali diventando un vero e proprio ”tempio della musica” francese. Oggi a Volume, il ricordo della “generazione Bataclan” e del concerto inaugurale tenuto da Sting un anno dopo la strage, in occasione della riapertura del locale. Ascolta lo speciale sul Bataclan.

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