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Appunti sulla mondialità

Le radici di Bob Marley

La musica di Bob Marley, scomparso 40 anni fa, ha dato notorietà a una storia che rasenta l’incredibile e che si è svolta tra gli Stati Uniti, la Giamaica e l’Etiopia. Il personaggio da cui bisogna partire per comprendere le parole di Marley è Marcus Mosiah Garvey, sindacalista nato in Giamaica nel 1887 ma vissuto a lungo negli Stati Uniti, dove si trasferì durante la Prima guerra mondiale. Pochi anni prima aveva cominciato a occuparsi delle condizioni di lavoro e di vita degli afroamericani in Giamaica, fondando la Universal Negro Improvement Association, e continuò a farlo nella sua seconda patria. Garvey aveva in mente un grande e originale disegno, quello di riportare in Africa i discendenti degli schiavi, convinto che non avrebbero mai potuto riconquistare la libertà in quella terra di esilio forzato.

Garvey predicava anche una profezia contenuta nella Bibbia amarica che prefigurava l’incoronazione di un imperatore nero in Africa, destinato a estirpare il male e scacciare i dominatori.  Quell’imperatore, nella visione di Garvey, si insediò sul trono dell’Etiopia nel 1930: era Ras Tafari Maconnèn, meglio noto con il nome di Hailé Selassié I, secondo la tradizione discendente da re Salomone e dalla regina di Saba. L’incarnazione della profezia divenne il punto di riferimento di una nuova religione nazionalista, il rastafarianesimo. Garvey riuscì a formare un governo africano in esilio a Harlem e a fondare una compagnia di navigazione, la Black Star Line, per rimpatriare afroamericani in Africa. Qualche decennio dopo, alcuni rasta che vivevano in comunità in Giamaica si trasferirono davvero in Etiopia per vivere nella terra del Leone di Giuda. Hailé Selassié non poteva credere di poter contare su persone che lo consideravano una divinità, arrivate da un’isola distante migliaia di chilometri.

Questa storia si intreccia con quella di un genere musicale, il reggae, evoluzione dello ska che divenne il veicolo per la diffusione planetaria del rastafarianesimo: soprattutto grazie proprio a Bob Marley, nato in uno slum giamaicano nel 1945, esponente di spicco di un movimento musicale che con lui divenne universale. In Marley non ci sono solo i temi religiosi legati al rastafarianesimo, a partire dalla preghiera a Jah (Geova) e dall’appello ad abbandonare Babilonia-Giamaica per andare in Africa. In Marley c’è tutto Garvey. C’è una religiosità che va aiutata fumando quotidianamente ganja, la marijuana giamaicana.  E ci sono anche la protesta sociale e la voglia di riscossa. Marley è un musicista che ha reso universale la Giamaica per le sue capacità artistiche straordinarie e che ha raccontato una storia che ha radici profonde nel passato del suo Paese, dove le comunità di maroons, schiavi fuggiti dalle piantagioni, costruirono villaggi indipendenti nel cuore delle Blue Mountains, ma anche la storia di Marcus Garvey, oggi dichiarato eroe nazionale, il sindacalista che voleva risolvere la discriminazione alle radici rimpatriando i neri in Africa. E infine l’incredibile collegamento con il Negus etiopico, simbolo di riscossa per i discendenti degli schiavi nei Caraibi.

È una storia che non sembra vera, eppure è soltanto una delle tante storie incredibili che si incontrano nella storia americana. Tutto alla fine si concentra in un solo nome, Robert Nesta Marley detto Bob, morto di cancro a Miami l’11 maggio 1981 e rimasto nella galleria dei musicisti immortali. In soli 36 anni di vita aveva rivoluzionato la scena musicale mondiale, fatto conoscere una religione, diffuso le idee di Garvey e denunciato la povertà e la violenza degli slum giamaicani. Un fuoriclasse che non è mai scomparso da questo mondo, perché la sua musica è frutto della storia, denuncia della schiavitù e speranza di cambiamento: in altre parole, musica classica del ’900.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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La scuola non serve a nulla

“Non se ne esce”: Tetralogia del Sessismo linguistico alla Medie – 1

Da Rula Jebreal a tanto altro…

Alla fine dei conti, purtroppo resto con quell’idea lì: non se ne esce. Ma spiego com’è cominciata.

A gennaio, ancora in presenza, avevo lanciato un progettino in classe con i miei pischellini: ragionare con loro sul problema del genere. Capire dove cominciamo a usare male le parole, e magari anche perché. E qui comincia la mia “Tetralogia del Sessismo linguistico alle Scuole Medie”: all’inizio, anni fa, solo un mio vecchio “cavillo di battaglia”, ma poi… poi è arrivato il dibattito sull’App Immuni con l’uomo professionista e la donna casalinga. Poi Beatrice Venezi che si fa chiamare “direttore d’orchestra” a Sanremo. Poi il catcalling. Poi Pio&Amedeo, il bacio a Biancaneve non consenziente e Rula Jebreal che non va a Propaganda Live perché è l’unica donna ospite (peccato: quanto sarebbe stato più efficace il suo messaggio se invece ci fosse andata e avesse affermato: “Vedete? Io, qui, sul palco della trasmissione oggettivamente più sensibile a queste tematiche legate al sessismo, alla discriminazione delle persone LGBTQ+ di tutto il palinsesto televisivo italiano, ecco, comunque, sono l’unica ospite donna! Quanta strada c’è ancora da fare?”). Insomma, ho capito che a gennaio avevo avuto una buona idea: portare in una scuola media l’antico dibattito sui generi e sulle professioni. Avvocato Maria Rossi? Avvocata Maria Rossi? O avvocatessa (sempre Maria Rossi, si capisce)? E la Ministro o la Ministra Cartabia? E il Sindaco/Sindaca Raggi? E via via tutto il resto… anche se poi in realtà è da tempo che si dibatte di “soffitti di cristallo”, di linguaggio inclusivo, in opposizione all’uso sessista, androcentrico, patriarcale (magari inconsapevole), di una lingua che non riflette abbastanza i mutamenti della società in cui sempre più donne raggiungono professioni di prestigio.

Ecco, ma come nota – fra i tanti – il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, quello del dare un genere alle professioni è uno dei due temi (l’altro è la presunta “invasione degli anglismi”) capaci di uscire dalla ristretta cerchia degli specialisti di linguistica per diventare politicizzato, polarizzato e spesso ignorantemente pop; quando non proprio “ho due dita, ho una tastiera, dico la mia ad mentula canis”, meglio se ne so poco, meglio ancora se l’opinione non è richiesta. Insomma un pessimo contributo all’avanzamento della conoscenza, ma nondimeno termometro sensibile per misurare la temperatura della faccenda.

Ma se ai più può sembrare un tema semplice, per chi lo vuole studiare sul serio semplice non è per nulla. Anche solo a cercare soluzioni all’annoso problema del genere. Si va dal “maschile non marcato” (“L’Uomo ha distrutto la natura”), al “maschile inclusivo sovraesteso” (“Gli studenti entrino uno alla volta”); dalla concordanza al maschile plurale di nomi o aggettivi riferiti a gruppi composti da donne e uomini (“Bisogna difendere i diritti dei lavoratori”), alla declinazione al femminile di professioni riferite a donne (da quelle ormai assimilate, la panettiera, la maestra, a quelle che ci suonano strane, l’avvocata, la ministra). E ancora, dall’asterisco indeterminativo (ministr*, avvocat*), allo ə (lo schwa, quel segno /ə/, appunto, che ogni tanto si trova in qualche pagina scritta e che si pronuncia a metà tra a e e, e che potete trovare nell’IPA, l’International Phonetic Alphabet, non la birra).

Per chi voglia capirci qualcosa, è imprescindibile secondo me affidarsi alla “triade” Sabatini-Robustelli-Gheno, tre studios*, tre espertə, tre donne il cui lavoro può essere preso come modello di lettura diacronica dell’appassionante “questione della lingua sessista” in Italia. E più in dettaglio: le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, poi confluite nel celebre “Il Sessismo nella lingua italiana” (1987) di Alma Sabatini; le “Linee Guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” nato contestualmente al “Progetto genere e Linguaggio” (2012) di Cecilia Robustelli, quasi un up-grade, questo, del lavoro della Sabatini; e “Femminili singolari” (2019) di Vera Gheno. Tutte cose da assaggiare un po’ prima di lanciare le dita e sminchionare sulla tastiera (o smonologare a vanvera su una televisione in prima serata).

E mica finisce qui: si farebbe torto a non citare tantissime raccomandazioni emanate in questi anni nell’amministrazione pubblica per un uso non sessista della lingua, ma faremmo notte. Sicchè io, pacchianissimo e ignorante docente di “Lettere e Cartoline”, qual sono, mi sono semplicemente chiesto:

“Di tutta ‘sta roba qua, cosa potrei raccontare nell’ora di Grammatica di una Prima di Scuola Secondaria di I° grado (diciamo: la prima media), con ragazzi undicenni, in una scuola a utenza media/medio alta della semiperiferia milanese?”

Ecco, io non mi sono limitato a chiedermelo… purtroppo sono andato avanti.  E che è successo? Be’, intanto, da venerdì 21 maggio sono al Teatro della Cooperativa con il mio “LA SCUOLA NON SERVE A NULLA 2.0: dalla Buona Scuola alla Dad”. Il seguito della storia invece ve lo racconto la settimana prossima…

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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In alto a sinistra

Caro Luigi, non siamo ancora “senza confini”

Diciotto anni fa, era il 17 maggio del 2003, moriva Luigi Pintor. Per me, (più o meno) giovane lettore de Il Manifesto, aspirante giornalista (all’epoca scrivevo su un giornale locale), appassionato di politica, (più o meno) comunista, Pintor (sebbene non lo abbia mai conosciuto personalmente) è stato un punto di riferimento importante, tanto che, l’anno successivo, è stato l’oggetto della mia tesi di laurea.

In questi giorni mi è capitato spesso di pensare a cosa avrebbe scritto di quanto sta accadendo in Palestina. Tra informazioni monche, parziali (più o meno in malafede), lunghissime analisi piene di paroloni incomprensibili, mi sono accorto di quanto manchi nel giornalismo (e nella politica) italiano, una capacità di analisi così profonda e allo stesso tempo una penna così fulminante come la sua. Vorrei le sue classiche venti righe (“ogni questione si può riassumere in venti righe, e una su tre è di troppo”, amava dire) che mi illuminino.

Mi sono riletto il suo ultimo articolo, pubblicato sul manifesto il 24 aprile del 2003. “Senza confini” è il titolo. Il suo testamento politico, è stato definito da qualcuno. Che lo sia o no, il rileggerlo diciotto anni dopo mi ha fatto pensare quanto sia ancora attualissimo. Inizia così: “La sinistra italiana che conosciamo è morta”. Qualcuno provi a dargli torto. E ancora: “Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno”. E all’epoca non esisteva ancora il Pd, e i democratici nostrani nella loro sigla tenevano ancora una S che almeno formalmente (sostanzialmente forse già non più) li identificava a sinistra.

Insomma, per Pintor non ci voleva “una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo”. Perché c’era (e c’è ancora) “un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte”. “Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine”, diceva ancora. Ma sia chiaro che non era un antesignano grillismo a fargli dire queste parole, ma la lucida consapevolezza di un comunista, eretico, italiano. Che avrebbe voluto, per contrastare quella parte di (dis)umanità che ci guida, “un’internazionale” (sebbene ritenesse questo termine da abolire.

Con quali caratteristiche? Dovrebbe essere “non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste”.

Ecco, diciotto anni dopo, forse vale la pena provarci davvero a “operare ogni giorno e invadere il campo”. Proprio per “reinventare la vita in un’era (questa che stiamo vivendo ancor di più di quello che descriveva Pintor) che ce ne sta privando in forme mai viste”.

Ma, caro Luigi, diciotto anni dopo non siamo ancora stati capaci nemmeno di scalfirli quei confini.

Foto | Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Valentino Parlato con la redazione, in una vecchia foto d’archivio

  • Alessandro Braga

    Classe 1975. Giornalista professionista, prima di approdare a Radio Popolare ha collaborato per anni col Manifesto. Appassionato di politica, prova anche (compatibilmente col tempo a disposizione) a farla

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Mia cara Olympe

Rula Jebreal e Propaganda live, già visto, già detto

Riassunto in sei punti, per distratte e distratti, del (piccolo) caso Rula Jebreal e Propaganda live, avendo la prima rifiutato l’invito in trasmissione per carenza di donne – una su sette nella fattispecie – , avendo i secondi risposto che evidentemente non conosce Propaganda che si distingue invece per diversity e fa gli inviti in base alla competenza.
1) Che la toppa sia stata quasi peggio del buco: già detto.
2) Che non è questione di ‘quote rosa’, ma di monopolio maschile: già visto, già detto. Utile ridirlo visto che anche molte donne continuano a dichiarare la propria avversione, non vedendo che se la gara è truccata dall’inizio hai voglia a correre. La legge Golfo-Mosca ha portato in pochi anni la presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle società quotate e partecipate da una miseria a poco meno del 40 per cento ed è citata a esempio in tutta Europa. Per cortesia? No, perché ha migliorato i consigli d’amministrazione, alzando il livello delle competenze. Non lo diciamo noi, lo dice, tra i tanti, uno studio apposito della Banca d’Italia (anche questo già detto, letto e scritto varie volte).
3) Che la questione della competenza è una trappola, laddove si scomoda solo per le donne: già visto, già detto. Vedi sopra.
4) Che il maschilismo, in diverse sue modalità, abiti anche a sinistra: già noto anche se più faticoso da riconoscere. Nessuna sorpresa: fulminante la vignetta di  Annarkikka ‘Noi di sinistra non siamo sessisti. Siamo amici’. Che dalle parti di Propaganda, che peraltro fa buone cose, spiri aria da combriccola degli amichetti (rigorosamente maschi) che si passano la palla tante lo avevano già notato e detto.
5) Che così però lei ha perso un’occasione di parlare di una vicenda quanto mai importante, ovvero il conflitto israelo-palestinese, già letto. Se qui lo si ripete è per notare l’inversione di senso: non è lei ad averla persa, ma noi che avremmo potuto, in altre condizioni, ascoltarla. Questo argomento poi, e non per caso, viene scomodato in un senso ‘gerarchico’. Sottotesto: davanti a tutto quello che lì sta accadendo, ti preoccupi di queste minuzie?
6) Che Rula non è la prima e non sarà l’ultima, beh è quasi inutile scommetterci.

Dunque questo breve riassunto poteva non darsi e chi scrive (e non solo lei), ogni volta, viene afflitta dalla ripetizione del già visto e del già detto. Allora qui si farà del giornalismo di servizio segnalando, a proposito di competenze, due cose: la prima è che in Inghilterra la BBC si è data un obbligo per gli inviti nelle sue trasmissioni,  quello del 50 e 50, (devo questa informazione a ‘Per soli uomini. Il maschilismo di dati dalla ricerca scientifica al design’, interessante e consigliabile saggio di Emanuela Griglié e Guido Romeo che si occupa anche dei media, non facendo fare all’Italia una gran figura e sostenendo che dobbiamo preoccuparci del maschilismo anche nei settori più avanzati, come il mondo dell’intelligenza artificiale).
La seconda è, che per merito di giornaliste intelligenti, tra le quali Giovanna Pezzuoli da poco scomparsa, esiste una banca dati online 100 esperte  in cui, perdonate l’ironia, chi è a caccia spasmodica di competenze da invitare in trasmissione ne trova quante ne vuole: sono scienziate, matematiche, economiste, esperte di politica, ora anche filosofe e storiche. E pensate, scelte anche con una selezione certificata: perché si sa, fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio…

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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I giorni dell'Ira

Un nuovo giorno dell’Ira: Oops… c’è stato un problema!

Il mondo post-pandemico mi sembra brutto e incattivito anche più di quello di prima: guardo (come tutti) le immagini da Gaza e mi domando chi o cosa potrà mai riallacciare i fili spezzati.

Forse se lo sono chiesti anche gli Ontroerend Goed, collettivo fiammingo di autentici pirati della scena. Al bel festival FOG, in Triennale a Milano, portano il titolo palindromo Are we not drawn onward to new erA. Nei loro spettacoli hanno fatto insorgere gli adolescenti, ricevuto singoli spettatori in disturbanti alcove, immaginato il mondo dopo la scomparsa dell’umanità. Stavolta, ci trasportano in un Eden andato a male, in cui gli attori fanno cose strane, parlando un lingua sconosciuta: distruggono un alberello, spargono sacchetti di plastica, erigono statue dorate. A metà performance, con un gioco tecnologico semplice ma complicatissimo, rivediamo tutto in rewind e scopriamo che la lingua era semplicemente inglese al contrario e che tutte le azioni erano un tentativo di rimediare simbolicamente allo schifo che abbiamo combinato sul pianeta. E poi? Poi, niente. Appena finito, ricominceremmo come prima. We must remove ourselves. Dobbiamo levarci di torno. Ecco.

Decido di sfogare la mia frustrazione globale prendendomela con Marvin. Marvin è uno dei miei assistenti virtuali. Il suo compito è farmi incazzare circa una volta al mese, quando cerco di venire a capo dell’ennesimo sganghero creato da uno dei miei vari spacciatori di servizi digitali. Non c’è nulla di altrettanto sgradevole che ricevere il festoso incitamento “Parla con noi!” quando sono già in ritardo e sto aspettando con urgenza un messaggio dal Presidente degli Stati Uniti, da qualcuno che mi deve dei soldi o dal mio pranoterapeuta, scegliete voi. Parlare con Marvin è come parlare con un ciellino convinto. Finge di ascoltare, finge di rispondere. Sa di possedere la verità assoluta. Ti commisera dal profondo. Marvin mi ascolta impassibile e sorridente mentre lo supplico virtualmente di aggiustarmi tutto quello che ho di rotto. Sfoggia una faccia tosta pari a quella di vecchi clichè del secolo scorso: l’idraulico introvabile che ti lascia ad aspettare sullo scoglio di Nasso come Arianna o l’elettricista inflessibile che ti umilia quando lo chiami per un guasto residuale ed economicamente poco appetitoso. Ma con Marvin è anche peggio, non puoi nemmeno sbatterlo fuori di casa quando perdi la compostezza.

Meglio mollare il colpo e passare ad altro. Ho bisogno di conferme (digitali). Decido di procedere al riassetto del mio profilo bancario. Dovrebbe essere una sciocchezza, ormai è un sacco di tempo che faccio tutto da remoto con il riconoscimento facciale. Una scusa anche per illudermi di non invecchiare: se il sistema mi riconosce, vuol dire che sono ancora la stessa. Volteggio leggera e disinvolta fra le spunte verdi e gialle, i clic, gli ok, gli “accetta”, le firme con svolazzo digitale, fino a quando… Oops…c’è stato un problema! Riprova. Dopo un paio di tentativi disperati, decido di chiamare il numero verde. Mi rispondono subito dopo un paio di selezioni e sono invasa dalla gioia. Una vellutata voce maschile ascolta il mio problema, mi rassicura, mi riassume i passaggi e mi dice che al momento giusto… lui sa diventare un altro… no, no…mi dice che per trionfare sul sistema devo inserire quel mio codice che sappiamo. Evvai. Vaffanculo, Marvin. W il vellutato bancario. Mi rimetto in cammino, dopo un nuovo riconoscimento facciale (fiuuuu!). Rifaccio tutte le acrobazie, apro e chiudo finestre come una agente immobiliare ansiosa di mostrare un monolocale in affitto, arrivo al momento del dunque, INSERISCO il codice magico e… Oops…c’è stato un problema! Riprova

Che declimax. Decido seduta stante di abbandonare ogni servizio bancario e di tornare al baratto. Così magari salvo anche il pianeta.

 

  • Ira Rubini

    Nata in Belgio, vive a Milano. Studia insieme legge e teatro. A 20 anni inizia a scrivere per la TV e firma oltre 40 trasmissioni, come la diretta della notte degli Oscar in cui vinse Benigni. Come antidoto, scrive teatro (anche con Franca Valeri) e gira il mondo per fare documentari. Insegna teatrologia alla Paolo Grassi e coordina il corso di Sceneggiatura alla Luchino Visconti. La radio è il primo amore: esordisce a Radio Popolare a 14 anni, poi ci torna a condurre il quotidiano culturale. Lavora a RadioRAI e alla Radio Svizzera Italiana. A volte, le piace tornare in scena con l'ensemble Ottavo Richter.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    "L’identità e il suo significato" nel nuovo album di Billie Marten

    "È un disco che parla dell'identità e del suo significato. Di quando scopriamo la nostra vera identità e di come, in realtà, una vera identità non esista: siamo in continuo cambiamento", ha raccontato Billie Marten ai microfoni di Volume. Per questo lavoro Billie Marten si è trasferita per qualche mese a Brooklyn, avendo voglia di registrare con nuovi musicisti, scoprendo nuovi lati della sua musica. Tornata in America per il tour, è rimasta molto colpita: "È stato scioccante vedere quanto l'America sia cambiata in così poco tempo. Ho visto un arresto dell'ICE in un parcheggio proprio davanti a me. Posso garantire che nei prossimi anni usciranno un sacco di album su tutto questo". L'intervista di Niccolò Vecchia a Billie Marten.

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    Vieni con me è una grande panchina sociale. Ci si siedono coloro che amano il rammendo creativo o chi si rilassa facendo giardinaggio. Quelli che ballano lo swing, i giocatori di burraco e chi va a funghi. Poi i concerti, i talk impegnati e quelli più garruli. Uno spazio radiofonico per incontrarsi nella vita. Vuoi segnalare un evento, un’iniziativa o raccontare una storia? Scrivi a vieniconme@radiopopolare.it o chiama in diretta allo 02 33 001 001 Dal lunedi al venerdì, dalle 16.00 alle 17.00 Conduzione, Giulia Strippoli Redazione, Giulia Strippoli e Claudio Agostoni La sigla di Vieni con Me è "Caosmosi" di Addict Ameba

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    Volume - 12-11-2025

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    Convenzione tra Asst e clinica

    Dal 1° ottobre il personale medico della struttura complessa di Endoscopia digestiva in servizio all'ospedale di Lecco è autorizzato a operare anche nella struttura privata non accreditata clinica San Martino di Malgrate. Questo grazie a una convenzione stipulata tra l'Asst Lecco e la Clinica. Ne abbiamo parlato con Milva Caglio, volontaria dello Sportello Salute di Lecco e Osnago.

    37 e 2 - 12-11-2025

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    Un padre e una figlia impigliati nella Storia

    Il documentario di Anna Negri “Toni, mio padre” è il risultato di una lunga elaborazione sull’assenza della figura paterna. La vicenda giudiziaria e politica che ha allontanato Toni Negri dalla sua famiglia porta con se un trauma affettivo che la figlia Anna è riuscita a raccontare in meno di due ore in un film. “Ho girato per anni, il materiale è immenso, ma ho dovuto fare una sintesi di cui mio padre ha fatto in tempo a vedere e approvare solo un premontaggio”. Il documentario di Anna Negri oltre a rappresentare in modo commovente, tenero e universale la ricostruzione di un rapporto tra un padre e una figlia separati da un linguaggio agli antipodi e senza mai nascondere la rabbia e il dolore, riporta in immagini gli anni ‘70 e ‘80, fino ad arrivare ad oggi con un ritratto della seconda metà del ‘900 e inzio del nuovo millennio. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini ad Anna Negri.

    Clip - 12-11-2025

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    Musica leggerissima di mercoledì 12/11/2025

    a cura di Davide Facchini. Per le playlist: https://www.facebook.com/groups/406723886036915

    Musica leggerissima - 12-11-2025

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    Considera l’armadillo di mercoledì 12/11/2025

    Considera l'armadillo di mercoledì 12 novembre 2025 con Roberto Di Leo, presidente di @radicediunopercento e @Marco Colombo, Naturalista e fotografo pluripremiato, parliamo di @Wildlife Photographer of the year in mostra a Milano al @Museo della Permanente per la tredicesima volta, ma anche di Cop 30 e di @friday for future. A cura di Cecilia Di Lieto.

    Considera l’armadillo - 12-11-2025

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