Programmi

blog

Vista da qui

É finita la scuola, ma quale scuola?

«Quest’anno emotivamente è stato difficile, mi è mancato il rapporto con le persone. Restare chiuso in casa… insomma, ho avuto più momenti “no” che momenti di gioie, e molte volte quei momenti di gioia erano una copertura, perché qualcosa non andava».

Chiunque abiti, lavori o semplicemente parli con bambine o ragazzi di diverse età si troverà oramai ad essere familiare con questo tipo di testimonianze. Il periodo pandemico che stiamo vivendo ha avuto dei costi psicologici notevoli un po’ per tutti ma gli effetti sono stati particolarmente acuti per i giovani, su cui abbiamo scaricato le restrizioni più dure: divieto di assembrarsi, divieto di andare a scuola, divieto di fare sport.

Gli adolescenti in questo anno e mezzo sono rimasti privi di voce e di rappresentanza: cosa sappiamo dei loro pensieri sulla pandemia? Quali canali di comunicazione esistono tra le giovani generazioni e noi? La scuola che ci sta a fare, se non si preoccupa di tenere vivo questo canale?

Durante quest’anno, invece, il sistema scolastico si è accontentato della DaD come surrogato della relazione educativa, si è accontentato di esistere formalmente, di non lasciare il vuoto assoluto, senza interrogarsi però con onestà sulla propria efficacia, sui propri compiti rispetto alle sfide poste dalla situazione. Dei giovani allora ci siamo interessati poco. Ad esempio, non ci siamo preoccupati di proporgli delle esperienze per dare un “senso” a questa situazione. Ma cos’altro avrebbe dovuto fare la scuola, se non fornire degli strumenti per navigare il tempo presente?

Oggi martedì 8 giugno chiudono le scuole di tutto il paese e finisce l’anno scolastico, un anno matto e assurdo a pensarci con la giusta calma. Un anno in cui, nonostante lo scoppio della pandemia nel lontano marzo 2020, non si è stati in grado di attrezzare un’esperienza scolastica in sicurezza e degna di questo nome.

L’anno scorso, quando è scoppiata la pandemia, si è creduto che si stesse aprendo una finestra di opportunità per ripensare la scuola, per migliorarla. Durante tutta l’estate del 2020 si era lavorato a costruire Patti territoriali per una scuola diffusa, a progettare ricircoli dell’aria e alternanze orarie, aprendo spiragli di novità nell’organizzazione del tempo e dello spazio scuola. Invece, dopo poco, l’anno scolastico è tornato ad appiattirsi sulla didattica a distanza rendendo ancora più complicato il rapporto di orizzontalità tra alunni e professore, nella propagazione dell’immagine a distanza. Nessuna educazione diffusa, nessuna riscoperta del territorio, nessuna valorizzazione dell’esperienza corporale.

In questo quadro, la Campania è stata la regione più colpita, nella quale le scuole sono rimaste chiuse più a lungo e nella quale, verosimilmente, gli effetti di lungo corso della mancata scolarizzazione saranno maggiori. A differenza del resto del paese, bambini e bambine delle elementari sono rimasti a casa quasi tutto l’anno, salvo poche settimane, dopo che già l’anno scorso era andata così.

In molte scuole napoletane la pandemia ha prodotto degli autentici disastri: alcune classi sono state letteralmente decimate non solo e non soltanto a causa della Dad (che è partita a fatica) ma anche perché è mancata una più generale strategia di vero accompagnamento durante il distanziamento fisico. Alla mancanza di connessione, di dispositivi e di disposizione a seguire le lezioni da remoto, si sarebbe dovuto fare fronte con una strategia ragionata per colmare il senso di abbandono che ciascuno ha provato restando chiuso a casa propria, a mille metri e mille giga dai propri compagni. Qualcuno ci ha provato, con bellissime iniziative per andare incontro agli alunni rimasti soli, come la Didattica dai Balconi.

In generale, però, è stato un anno in cui la scuola si è rivelata per quello che è: una scuola vecchia e stanca, molto procedurale, poco attenta alle dimensioni emotive ed esperienziali. Una scuola, quindi, che produce abbandono scolastico perché non riesce a prendere sul serio i bisogni dei suoi studenti più in difficoltà. Una scuola, questa, che produce sistematici abbandoni.

Che dire, allora? Anche questa volta è mancata la capacità di rinnovare le tradizioni più consolidate, di reagire all’impatto della variabile pandemica con un adattamento delle pratiche educative e relazionali. Si è mostrata tutta l’incapacità dell’istituzione-scuola di affrontare la complessità e lo straordinario (che è poi l’ordinario con cui confrontarsi). Si è vista, poi, tutta la secondarietà della scuola nelle priorità del paese insieme a tutta la dannosa sbornia tecnologica che ha inondato i giornali.

Dopo un anno e mezzo di pandemia sembriamo essere tornati al punto di partenza: non esiste uno straccio di idea per la scuola dell’anno prossimo. Eppure, se vogliamo pensare al domani del paese dobbiamo pensare al domani della scuola e al domani del Mezzogiorno. Allora, l’ultimo giorno di scuola, visto qui da Napoli, con i maestri restituiti alla presenza, che ce la mettono tutta per organizzare giornate all’aperto nei parchi e nelle vie, all’insegna del gioco e della cooperazione, del corpo e della scoperta, sembra l’esempio migliore di tutto quello che la scuola (al sud e non solo) potrebbe essere e non è, con o senza la pandemia.

  • Emilio Caja e Pietro Savastio

    Emilio Caja e Pietro Savastio sono ricercatori indipendenti e collaborano con varie riviste, enti di ricerca e università. Sono stati e continuano ad essere partecipi di diverse esperienze di attivismo politico e sociale. Emilio lavora all'università e ha un piede sotto l’Etna, Pietro lavora nella scuola e ha due piedi sotto il Vesuvio: “da qui” è la prospettiva del Sud da cui guardano al mondo, dopo essere stati a spasso per l’Europa del Nord a studiare e formarsi.

ALTRO DAL BLOGVedi tutti
ARTICOLI CORRELATITutti gli articoli

La nave di Penelope

“Sedici anni non li avrò più, tanto vale partire adesso”

Sguardo risoluto ed emozionato, dopo aver salutato i genitori al gate. Avranno libri nello zaino, la valigia, lo smartphone pieno di foto con gli amici e i sentimenti contrastanti di qualunque adolescente che parta da solo per un lungo periodo. A distinguerli dai loro predecessori c’è solo la mascherina. Li immagino così i ragazzi che hanno deciso di passare l’anno all’estero e che neanche la pandemia è riuscita a fermare. “Questo è un treno che passa una sola volta nella vita e non potevo permettermi di perderlo”, spiega la sua scelta Giorgia, una studentessa siciliana che sta trascorrendo quest’anno scolastico in Austria.

Non è stata l’unica a fare questo ragionamento. Come lei, nell’anno scolastico 2020-2021, nonostante le incertezze, le restrizioni e le varie ondate pandemiche, sono stati 500 gli studenti delle superiori che hanno fatto la valigia e sono partiti con il programma di Intercultura, l’associazione che organizza e finanzia scambi interculturali tra studenti in tutto il mondo. Un numero contenuto rispetto al solito, ma non così tanto. La paura del virus, le difficoltà che può portare viaggiare durante una pandemia e il rischio di continui lockdown, a quanto pare, non sono stati ostacoli così insormontabili.

E se un periodo vissuto all’estero segna profondamente chiunque viva questa esperienza, mi chiedo come sia stato farla durante un periodo così particolare.

“Se avessi saputo, prima di partire, come sarebbe stato il mio anno all’estero con le restrizioni della pandemia, probabilmente avrei avuto dei dubbi”, ammette Michelangelo Arena, 18 anni, milanese, che dallo scorso agosto si trova in Danimarca. Ma subito aggiunge: “Ad averlo vissuto, invece, sono contento e soddisfatto della mia esperienza”. Un periodo che lo ha aiutato ad arricchire il suo bagaglio culturale e ad acquisire maggiore consapevolezza di sé. Questa esperienza, aggiunge Raffaele, anche lui in Danimarca, “è stato un modo per fare comunque fruttare un anno così particolare che, restando a casa, rischiava di essere molto povero”.

Stessa cosa per Giorgia, che pensa che tutto sommato lockdown e restrizioni non abbiano limitato la sua esperienza in Austria: “Ho avuto la possibilità di trascorrere più tempo con la mia famiglia ospitante e di immergermi ancora di più nelle sue tradizioni”.

Quindi il bilancio è positivo: un’esperienza di arricchimento personale, nonostante la pandemia. Mascherine, periodi in Dad e lockdown non hanno spento l’entusiasmo dei ragazzi. Ma di sicuro il coronavirus, nelle decisioni degli studenti in partenza, non è stato ininfluente.

Consideriamo il fattore distanza: durante una pandemia è più difficile spostarsi, soprattutto per le emergenze. Si pensi ai voli sospesi, alle restrizioni in entrata. E le distanze, per la prima volta in tanto tempo, si sono allungate. Così, in tanti hanno preferito mete più vicine. Secondo i dati di Intercultura, la scelta dei ragazzi, nella maggior parte dei casi, quest’anno si è orientata verso destinazioni europee. Anche se non sono mancate partenze per l’America, dagli Stati Uniti alla Colombia, passando per il Canada e l’Uruguay.

Ora potremmo dire: ok, non potevano sapere cosa sarebbe successo e sono stati coraggiosi, ma visto l’andamento pandemico precipitato subito dopo l’estate scorsa, nessuno avrà chiesto di partire ora. A quanto pare non è così.

Per l’anno prossimo i ragazzi che hanno scelto questo percorso saranno molti di più. Sono 5mila quelli che si sono iscritti lo scorso autunno al concorso di Intercultura. Di questi, 1.600 lo hanno vinto e sono pronti a partire. Il 49 per cento di loro ha scelto un Paese europeo. Il 20 per cento, l’America latina, in particolare Argentina, Cile, Costa Rica, Uruguay . Il 18 per cento andrà negli Stati Uniti o in Canada. Mentre l’11 per cento dei ragazzi ha preferito l’ Asia – a dispetto della pandemia, la Cina resta la più gettonata delle destinazioni in questo continente -. Il restante 2 per cento andrà in Oceania o Africa.

Sono tanti e sono determinati. Cosa li ha spinti a farlo nonostante la situazione e l’incertezza, anche dopo un anno così difficile? Semplice, “ho scelto di partire nonostante il Covid perché la pandemia è un fatto globale: che io mi trovi in Italia o in Germania, avrà sicuramente un impatto sulla mia vita. E sedici anni non li avrò più, tanto vale partire adesso”, spiega Stella, milanese, che ha vinto il concorso 2021-2022. Risposta inattaccabile e pragmatica.

Un ragionamento condiviso da tutti, sembra. Anche da Giulia, che non si è lasciata intimorire e non ha ripensato alla sua destinazione cercando mete più vicine. Anzi è molto felice di non averla dovuta cambiare. “La pandemia è un evento che ha travolto il mondo intero, portando con sé molteplici difficoltà e stravolgendo le abitudini di tutti, ma in particolare di noi giovani. Dopo mesi trascorsi chiusi in casa però ho preferito non sprecare ulteriormente il mio tempo e affrontarle queste difficoltà”. Non ha dubbi e non sta nella pelle: trascorrerà il prossimo anno scolastico negli Stati Uniti.

“Sperando, certamente, che non sia così, sono consapevole del fatto che potrei dovermi confrontare nuovamente con periodi in didattica a distanza, ma questo non mi spaventa – aggiunge Giulia – e sono comunque felice di poter conoscere persone e sperimentare abitudini nuove e di potermi costruire una nuova vita partendo da zero, tutto questo dall’altra parte del mondo”.

Il fantasma della Dad però aleggia nei discorsi di ognuno di loro, anche se sembrano essersi muniti dei fucili protonici dei Ghostbusters carichi di ottimismo.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

ALTRO DAL BLOGVedi tutti
ARTICOLI CORRELATITutti gli articoli

La scuola non serve a nulla

“Non se ne esce”: Tetralogia del Sessismo linguistico alla Medie – 4

Le conclusioni, le migliori, quelle che non concludono…

Eccoci a tirar le somme di questa ricerca che spero non abbia smerigliato le gonadi negli episodi precedenti. Anche perché ora potete vedere chiaramente, quello che intendevo: non ho certezze da tirare fuori, niente verità assolute. In fondo la grammatica la odiamo da piccoli perché ci sembra ci imponga leggi ferree, da imparare noiosamente a memoria; e da grandi per il motivo esattamente contrario, perché la sua più moderna istanza descrittiva non ci risolve certi dubbi per dirimere i quali a lei ci rivolgiamo come fosse oracolo… E allora? Solo brandelli di sensazioni andrò a elencare, frutti di una ricerca undicenne e ingenua, fuori dalle righe dei social e permeata – senza che nessunə si offenda – di vitalità innocente:

1) sono statisticamente più spesso gli uomini che tendono a declinare i sostantivi “importanti” al femminile (“sindaca”, “la presidente”) rispetto alle donne (le quali preferiscono “sindaco”, “il presidente”: aspetto evidente dal confronto in domande poste in parallelo, sulla stessa professione, a mamma e papà, a mo’ di “Intervista doppia”). Prima domanda aperta, che semino qui: dipende solo dal babbo che vuole risultare più “liberal” agli occhi della mamma? O magari, meno simpaticamente (e forse il fulcro vero di tutta la questione è lì) non è che ciò potrebbe dipendere dal fatto che le donne, per pensare di aver raggiunto la parità di genere, abbiani giudicato giusto chiamarsi con il nome di una certa “professione di rango” declinato al maschile? Come a voler dire “anch’io, donna, ci sono arrivata! Ho preso anch’io quel ruolo che prima era solo tuo!” . Certo, è stato questo un indirizzo linguistico importante della battaglia femminista, negli anni ’70 e ’80: ma ha fatto il suo tempo, perchè tale scelta sottendeva che per le donne, nel momemto in cui raggiungevano posizioni apicali (oggi, sempre più spesso), era importante, con la declinazione al maschile, che nascondessero il fatto di essere donne. E invece il segno linguistico della vera parità è proprio, in maniera pù profonda, la declinazione al femminile.

2) spesso ‘sti/e ragazzetti/e dimostrano un’apertura, una sana curiosità e una assenza di pregiudizi che sarebbe bello conservare crescendo. Come per tante altre cose;

3) credo sia utile far comprendere alcuni meccanismi della lingua, relativi a come essa di sviluppa e cambia. Certo, i problemi sono anche altri, ma le battaglie sociali sui diritti mica sono come “i migliori amici” che, come dicono i nostri, “se ne deve scegliere solo uno alla volta”; per cui non è che se uno si occupa della lingua non si può occupare anche della parificazione dei diritti salariali.

4) forse la lingua non accompagnerà o favorirà i mutamenti sociali (ne siamo proprio certi?), ma sicuramente li riflette, e che chiamare le cose con il loro nome, come spiegano le studiose citate all’inizio, “aiuta a vederle meglio”. E se chiamare le donne con nome di professione declinato al femminile “non cambia certo la situazione della donna”, figuriamoci quanto aiuta a cambiarla mantenere la declinazione al maschile;

5) desta comunque perplessità, se non dispiacere, che siano più spesso le donne a considerare il nome declinato al maschile come di un grado superiore rispetto allo stesso nome declinato al femminile;

6) dobbiamo però saper ascoltare anche le comprensibili resistenze di chi avverte un ragionevole senso di titubanza davanti a tutti questi cambiamenti: e certo mica dipende sempre solo da ragioni socioculturali connesse a sessismo, patriarcato e androcentrismo; se non vogliamo chiamare in causa il “disallineamento evolutivo”, come spiega bene Annamaria Testa, diamo atto che esiste però, almeno, una sorta di “forza di gravità” delle parole, un vettore entropico che tenderebbe, per abitudine, a farle tornare sempre lì: un misto di comprensibile inerzia, deprecabile pigrizia e vischiosa praticità, “perché se no poi, prof, dobbiamo di nuovo cambiare sempre tutto il libro di grammatica?”. Senza contare che l’eccessiva preoccupazione nel tentativo di non “ferire nessuno” (da parte di chi ha a cuore la questione, ovvio) potrebbe portare tante donne ma soprattutto uomini, a, oddio, “non saper più come chiamare” le donne: “e se lei preferisce avvocato?”. Una paralisi linguistica che è il caso di tenere presente, nel calderone… Perché appunto, non se ne esce, poi: più studi la questione e più ti ci blocchi…

Però, allora, fatto trenta si fa trentuno: ho poi provato a parlare in classe anche dello “ə”, lo schwa, la soluzione proposta dalla sociolinguista Vera Gheno nel caso della concordanza di nomi e aggettivi plurali riferiti a moltitudini miste, sia maschili che femminili (e trattandosi di classe di undicenni, non ho ritenuto opportuno aggiungere che la soluzione potrebbe essere adottata anche per riferirsi a persone sessualmente “non binarie”). La cosa è stata accolta con curiosità: più entusiasmo da parte delle alunne, qualche scetticismo tra gli alunni. Non credo che potrei accettarlo in un tema, ma è interessante constatare come la loro mente viaggi, parta, crei analogie: e vedere che, dopo aver acquisito il meccanismo, lo applicano anche in campi per cui non è stato pensato, come gli oggetti con il solo genere grammaticale: “Ma allora prof, posso scrivere anche che “Il gelato e la granita sono squisitə?”

Ecco, non ho la più pallida idea di come andrà a finire. Vedremo, e forse il bello è proprio il fatto che ci siamo ancora in mezzo, questo… non uscirne. Più importante tenere vivo il dibattito, restare ricettivi e aperti, sperimentare modalità che possano suggerire un uso del linguaggio più rispondente alle esigenze di una società indirizzata verso la pacifica convivenza delle nostre diverse unicità. Essere consapevoli e parlarne è già un gran passo avanti rispetto ad alcuni anni fa: si può farlo già nelle scuole, e quasi giocando (non sono certo il primo ad averci portato la questione: guardate qui la pagina di Scosse in classe”, oltre al sito di “Italiano Inclusivo”).

Ma almeno una certezza, in chiusura: la nostra professoressa di matematica, almeno lei, ha accettato la proposta di farsi chiamare per scherzo dagli alunni, solo nella nostra classe, “Professora”. Era uno dei cavalli di battaglia di Alma Sabatini, che sconsigliava l’adozione, nelle sue “Raccomandazioni…” del suffisso “-essa”, e preferiva, anche per i nomi maschili terminanti per “-ore”, l’uscita al femminile in “-ora”, perché, a partire dalla fine ‘800, tale suffisso si era caricato di una connotazione quasi dispregiativa e sarcastica (era nato a indicare non una donna titolare di una certa professione di rango, ma la moglie di un uomo che questa professione svolgeva… insomma, “dottoressa” significava “moglie del dottore che se la tira come fosse il marito”). Ora i termini “dottoressa” e “professoressa” si sono acclimatati e hanno completamente perso tale accezione negativa o ironica (l’ho spiegato tutto ciò agli alunnə): ma anche soltanto per gettare qualche coriandolo di linguistica in pillole, almeno sono riuscito a incarnare un momento storicamente così importante di questo dibattito. Almeno questo…

Perché non si può fare altro. Perché se oh, da sto discorso, non se ne esce…  allora stiamoci!

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

ALTRO DAL BLOGVedi tutti
ARTICOLI CORRELATITutti gli articoli

Bad Input

Requiem per la formula WikiLeaks?

Tranquilli: la creatura di Julian Assange è viva e vegeta. A rischiare, però, è la formula stessa del “leak” come è stato pensato alle origini di WikiLeaks e dai vari soggetti che hanno visto nella diffusione diretta dei documenti una possibilità per fare informazione dal basso.

Per capire quello che sta succedendo, basta guardare al caso delle email di Anthony Fauci. Riassumo brevemente (sullo stesso tema c’è un articolo più approfondito su Open) i termini della questione. Washington Post e BuzzFeed hanno ottenuto attraverso un procedimento FOIA (Freedom of Information Act) il testo delle email inviate e ricevute dal virologo statunitense.

Un malloppo raccolto in un enorme file PDF (3.234 pagine) in cui si trova un po’ di tutto. Interessante? Sì. Utile? Forse. Dannoso? Anche.

Perché il materiale in questione è diventato preda di complottisti, negazionisti e idioti vari che lo stanno sfruttando per diffondere le solite fake news.

Come? Semplicemente estrapolando questo o quel messaggio, aggiungendoci qualche commento a effetto per poi spammarlo sul web tramite social network, forum, software di messaggistica e qualsiasi altro strumento gli venga in mente.

Probabilmente una parte di queste attività è svolta dai soliti “professionisti della fuffa” al soldo di qualche governo (o partito) sovranista. Altra parte circola semplicemente a opera di qualche “giornalista fai da te”, dei soliti gruppi di sciamannati e da singoli individui che non vedono l’ora di avere il loro (virtuale) quarto d’ora di celebrità nella chat del calcetto.

C’è qualcosa di nuovo? Purtroppo no. La verità è che l’informazione disintermediata non è sempre una cosa positiva. Anzi: non lo è quasi mai.

Senza le verifiche e i controlli da parte di qualcuno che ha gli strumenti (anche deontologici) per farli, le informazioni di prima mano rischiano di trasformarsi in armi di distrazione di massa.

Di fronte alla sistematicità con cui questo avviene, forse dovremmo chiederci se la “formula WikiLeaks” sia ancora una buona idea. Io comincio ad avere più di qualche dubbio.

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

ALTRO DAL BLOGVedi tutti
ARTICOLI CORRELATITutti gli articoli

L'Ambrosiano

I ricordi vivono, non ci appartengono: 2 giugno, le donne, Milano

Non so se in nome della ripartenza la retorica del 2 giugno ha passato il segno. A me la Festa della Repubblica col virus ha evocato alcuni ricordi: quando da studente curioso trovai su una bancarella Risorgeva Milano (1953) di Antonio Greppi (1894-1982); un’intervista a Bianca Ceva (1897-1982); l’ascolto di Laura Conti (1921-1993) in Regione; una delibera di Maria Paola Colombo Svevo (1942-2010).

Il libro del Sindaco della Liberazione (socialista, ma in esergo cita Sant’Ambrogio: “Si rinnoverà come l’aquila la mia giovinezza”) mi colpì il titolo: l’imperfetto è il passato che continua, dice il presente, prospetta il futuro: è il tempo delle fiabe. Non c’è racconto più reale della vita quando è in gioco tutto di noi. Avevo conosciuto Bianca Ceva insegnate al Manzoni; il giornale cercava testimoni della Resistenza; andai; raccontò sé, la famiglia, il bisogno che i giovani conoscessero i sacrifici da dov’era nata la democrazia. Mi regalò il suo libro: Tempo dei vivi: 1943-1945; vi annotò: «Recensito da Montale sul Corriere nel 1954».

Della Conti seguii per anni gli interventi in Consiglio Regionale. Lottava per prevenzione e tutela ambientale. La sua scuola: medico e partigiana; antesignana di tempi di virus. La Colombo Svevo un giorno mi chiamò: «Fermata!». Assessore Dc ai Servizi Sociali bloccò la svendita del patrimonio ex Eca: in un’inchiesta avevo acceso la luce; nella stanza dei bottoni si stavano spartendo la torta. I ricordi non ci appartengono. Greppi aveva ricostruito la Scala a tempo di record: l’11 maggio ’46 Toscanini diresse, reduce dall’esilio. L’arte è amica delle scelte civili e politiche. Bianca, Laura, Maria Paola: tre delle donne che sull’onda del 2 giugno hanno praticato la lunga marcia della cittadinanza al femminile.

Scrive Shakespeare: «Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca». Il 2 giugno «ci cerca» giorno per giorno. Se facessimo finta di niente o fuggissimo alla responsabilità dell’incontro sarebbero regressione, oblio, buio, morte. Memoria è energia vitale per noi, servizio alla comunità, a chi manco conosciamo, a chi verrà. Ricordare è modo d’essere, spirito che nutre la voglia di proseguire, è rinnovo repubblicano. Sognare a occhi aperti è vita!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

ALTRO DAL BLOGVedi tutti
ARTICOLI CORRELATITutti gli articoli

Adesso in diretta

  • Ascolta la diretta

Ultimo giornale Radio

  • PlayStop

    Giornale Radio mercoledì 12/11 12:31

    Le notizie. I protagonisti. Le opinioni. Le analisi. Tutto questo nelle tre edizioni principali del notiziario di Radio Popolare, al mattino, a metà giornata e alla sera.

    Giornale Radio - 12-11-2025

Ultimo giornale Radio in breve

  • PlayStop

    Gr in breve mercoledì 12/11 15:30

    Edizione breve del notiziario di Radio Popolare. Le notizie. I protagonisti. Le opinioni. Le analisi.

    Giornale Radio in breve - 12-11-2025

Ultima Rassegna stampa

  • PlayStop

    Rassegna stampa di mercoledì 12/11/2025

    La rassegna stampa di Popolare Network non si limita ad una carrellata sulle prime pagine dei principali quotidiani italiani: entra in profondità, scova notizie curiose, evidenzia punti di vista differenti e scopre strane analogie tra giornali che dovrebbero pensarla diversamente.

    Rassegna stampa - 12-11-2025

Ultimo Metroregione

  • PlayStop

    Metroregione di mercoledì 12/11/2025 delle 07:16

    Metroregione è il notiziario regionale di Radio Popolare. Racconta le notizie che arrivano dal territorio della Lombardia, con particolare attenzione ai fatti che riguardano la politica locale, le lotte sindacali e le questioni che riguardano i nuovi cittadini. Da Milano agli altri capoluoghi di provincia lombardi, senza dimenticare i comuni più piccoli, da dove possono arrivare storie esemplificative dei cambiamenti della nostra società.

    Metroregione - 12-11-2025

Ultimi Podcasts

  • PlayStop

    Volume di mercoledì 12/11/2025

    Dal lunedì al venerdì dalle 14.00 alle 16.00, Elisa Graci e Dario Grande vi accompagnano alla scoperta del suono di oggi: notizie, tendenze e storie di musica accompagnate dalle uscite discografiche più imperdibili, interviste con artisti affermati e nuove voci, mini live in studio e approfondimenti su cinema, serie TV e sottoculture emergenti. Il tutto a ritmo di giochi, curiosità e tanta interazione con il pubblico. Non fartelo raccontare, alza il Volume!

    Volume - 12-11-2025

  • PlayStop

    Convenzione tra Asst e clinica

    Dal 1° ottobre il personale medico della struttura complessa di Endoscopia digestiva in servizio all'ospedale di Lecco è autorizzato a operare anche nella struttura privata non accreditata clinica San Martino di Malgrate. Questo grazie a una convenzione stipulata tra l'Asst Lecco e la Clinica. Ne abbiamo parlato con Milva Caglio, volontaria dello Sportello Salute di Lecco e Osnago.

    37 e 2 - 12-11-2025

  • PlayStop

    Un padre e una figlia impigliati nella Storia

    Il documentario di Anna Negri “Toni, mio padre” è il risultato di una lunga elaborazione sull’assenza della figura paterna. La vicenda giudiziaria e politica che ha allontanato Toni Negri dalla sua famiglia porta con se un trauma affettivo che la figlia Anna è riuscita a raccontare in meno di due ore in un film. “Ho girato per anni, il materiale è immenso, ma ho dovuto fare una sintesi di cui mio padre ha fatto in tempo a vedere e approvare solo un premontaggio”. Il documentario di Anna Negri oltre a rappresentare in modo commovente, tenero e universale la ricostruzione di un rapporto tra un padre e una figlia separati da un linguaggio agli antipodi e senza mai nascondere la rabbia e il dolore, riporta in immagini gli anni ‘70 e ‘80, fino ad arrivare ad oggi con un ritratto della seconda metà del ‘900 e inzio del nuovo millennio. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini ad Anna Negri.

    Clip - 12-11-2025

  • PlayStop

    Musica leggerissima di mercoledì 12/11/2025

    a cura di Davide Facchini. Per le playlist: https://www.facebook.com/groups/406723886036915

    Musica leggerissima - 12-11-2025

  • PlayStop

    Considera l’armadillo di mercoledì 12/11/2025

    Considera l'armadillo di mercoledì 12 novembre 2025 con Roberto Di Leo, presidente di @radicediunopercento e @Marco Colombo, Naturalista e fotografo pluripremiato, parliamo di @Wildlife Photographer of the year in mostra a Milano al @Museo della Permanente per la tredicesima volta, ma anche di Cop 30 e di @friday for future. A cura di Cecilia Di Lieto.

    Considera l’armadillo - 12-11-2025

  • PlayStop

    Cult di mercoledì 12/11/2025

    Cult è condotto da Ira Rubini e realizzato dalla redazione culturale di Radio Popolare. Cult è cinema, arti visive, musica, teatro, letteratura, filosofia, sociologia, comunicazione, danza, fumetti e graphic-novels… e molto altro! Cult è in onda dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 11.30. La sigla di Cult è “Two Dots” di Lusine. CHIAMA IN DIRETTA: 02.33.001.001

    Cult - 12-11-2025

  • PlayStop

    Pubblica di mercoledì 12/11/2025

    Pubblica ha ospitato Nino Di Matteo, sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia. La giustizia che verrà: veloce contro gli ultimi e con le armi spuntate verso la criminalità dei colletti bianchi. «La separazione delle carriere dei magistrati - sostiene il giudice Di Matteo - è un pericolo per i cittadini». La legge costituzionale Meloni-Nordio, ci ha raccontato Di Matteo, vuole colpire l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Non solo. La “riforma” Meloni-Nordio è inserita in un contesto di nuove norme (dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio alla limitazione delle intercettazioni, alla sterilizzazione del traffico di influenze) che rappresentano una sorta di scudo di protezione dei potenti. Quindi, con la perdita di autonomia e indipendenza della magistratura (soprattutto nei riguardi del pubblico ministero); con una legislazione ordinaria orientata alle esigenze di polizia, l’eventuale vittoria dei SI alle nuove norme sposterebbe l’equilibrio dei poteri verso l’esecutivo. L’eventuale varo del premierato finirebbe per sanzionare una vera e propria concentrazione di potere in capo al governo.

    Pubblica - 12-11-2025

  • PlayStop

    A come Asia di mercoledì 12/11/2025

    A cura di Chawki Senouci con Gabriele Battaglia

    A come Atlante – Geopolitica e materie prime - 12-11-2025

  • PlayStop

    COLLETTIVO GESSI WHITE - CITTA' IN AFFITTO

    COLLETTIVO GESSI WHITE - CITTA' IN AFFITTO - presentato da F. Fulghesu

    Note dell’autore - 12-11-2025

  • PlayStop

    Morti in bici, ecco le mappe per ridurli

    L’Atlante italiano dei morti (e dei feriti gravi) in bicicletta, la più completa mappatura dell’incidentalità ciclistica in Italia finora mai realizzata (gratis e consultabile a questo link: https://craft.dastu.polimi.it/it/articles/15) è il risultato di uno studio del Competence Centre on Anti-Fragile Territories (CRAFT) del Politecnico di Milano. Quattro Dashboard offrono un’analisi degli incidenti ciclistici su base ISTAT 2014-2023 in ogni singolo comune italiano e i dati possono essere consultati per province, regioni e aggregazioni spaziali libere. La quinta Dashboard consente di visualizzare la localizzazione degli incidenti con le coordinate utili alla geolocalizzazione degli incidenti. Paolo Bozzuto, docente del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano - DAStU, coordinatore del progetto: “Geolocalizzare e mappare tutti gli incidenti ciclistici è un cambio di paradigma per l’analisi dell’incidentalità ciclistica in Italia è diventa uno strumento di conoscenza e pianificazione per contribuire a ridurre gli incidenti”.

    Clip - 12-11-2025

  • PlayStop

    Tutto scorre di mercoledì 12/11/2025

    Sguardi, opinioni, vite, dialoghi al microfono. Condotta da Massimo Bacchetta, in redazione Luisa Nannipieri.

    Tutto scorre - 12-11-2025

  • PlayStop

    Presto Presto - Interviste e Analisi di mercoledì 12/11/2025

    Le elezioni in Campania raccontate da Ciro Pellegrino caporedattore di FanPage tra TikToker, equilibri locali, polemiche sui candidati e poco interesse dell'opinione pubblica. Giacomo Salvini cronista politico de Il Fatto Quotidiano pesa il voto per le coalizioni: tra il tentativo di soprasso di Fdi sulla Lega anche in veneto e il dilemma della leadership della coalizione di centrosinistra. L'atlante degli incidenti ciclistici d'Italia un corposo studio in 5 mappe interattive realizzate dal Politecnico di Milano per conoscere Comune per Comune incidenti, cause e conseguenze, uno strumento che cambia la nostra percezione del fenomeno e che può aiutare gli amministratori, ci spiega il coordinatore del progetto Professore Paolo Bozzuto, se volete consultarlo lo trovate qui: https://craft.dastu.polimi.it/it/articles/15 La campagna Abiti Puliti lancia un allarme "No al caporalato del Made in Italy": dopo le inchieste della magistratura che hanno scoperchiato come anche nel lusso le catene di subappalti siano finite in capannoni dove senza diritti lavoratrici e lavoratori vengono sfruttati per pochi euro all'ora, il governo vuole offrire uno "scudo penale" ai brand della moda, ce ne parla Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti che da quasi 30 anni si batte per il rispetto dei diritti del lavoro nelle filiere tessili, un tempo soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, ora sempre di più anche in Italia.

    Presto Presto – Interviste e analisi - 12-11-2025

Adesso in diretta