In queste ultime ore ci ha fatto una certa impressione osservare i continui festeggiamenti per le strade di Damasco. Festeggiamenti che non si sono mai fermati, nemmeno durante la notte. Musica, balli, fuochi d’artificio, spari, rose nei giubbotti anti-proiettile dei poliziotti, e sorrisi tanti sorrisi. Un profondo senso di liberazione e un sentimento di speranza, in buona parte quello che si percepiva proprio qui, a Damasco, lo scorso anno, subito dopo la caduta del vecchio regime. La dittatura è durata così tanto, oltre mezzo secolo, che la sua fine va metabolizzata poco alla volta. I festeggiamenti di oggi seguono l’onda lunga di quelli di un anno fa.
La gioia per le strade di Damasco, i selfie e i sorrisi, stonano di fronte ai tanti problemi della Siria di oggi. O forse sono proprio la loro valvola di sfogo. Siamo stati per esempio sulla costa mediterranea e abbiamo parlato con alcuni sopravvissuti al massacro dello scorso marzo. Almeno 1.500 morti nella comunità alauita, la comunità di riferimento degli Assad. Hanno ancora paura e non si fidano del nuovo governo e delle sue forze di sicurezza. In questi giorni niente festa nemmeno nella regione curda nel nord-est e in quella drusa a sud.
Siamo stati anche in alcune delle aree più martoriate durante la guerra. Dove la gente non ha nulla. Molti vivono sulle macerie delle loro case, nelle stesse tende che si sono portati dietro dal Libano. Mahmoud vive a Bueida, provincia di Homs, ha perso la vista mentre combatteva contro l’esercito regolare. Oggi lo accompagna per mano, ovunque, il figlio di 7 anni: “Assad è il responsabile di tutto questo, ma in fondo la nostra condizione materiale è la stessa di prima, anzi, forse stiamo peggio, mangiamo solo pane e patate”.
E poi abbiamo parlato con diverse persone che per i motivi più svariati hanno a che fare con il nuovo sistema. Lamentano già troppa burocrazia e un eccessivo controllo. Anche noi per allungare il nostro visto siamo dovuti passare da sei uffici diversi nello stesso edificio. Timbri, firme, fogli, documenti.
Una delle chiavi per comprendere la distanza tra i sorrisi per le strade di Damasco in questi giorni e le tante contraddizioni, ce l’ha data Amina, mentre guardava una sfilata militare nel centro di Damasco: “abbiamo un nuovo governo certo, è un cambiamento epocale, ma ci vorrà molto tempo perché i siriani non hanno ancora capito come muoversi in questo nuovo contesto”. Amina ci dice anche che bisogna avere speranza, perché la speranza è tutto quello che hanno.
A un anno dalla caduta del regime di Assad, la Siria prova a guardare avanti

Il conducente dell’autobus che ci porta dall’aereo alla zona arrivi dell’aeroporto di Damasco guida con una mano sola. Con l’altra deve tenere chiusa la portiera alla sua sinistra. Non ha molte alternative. La prima sensazione che ti dà la Siria a un anno dalla caduta di Bashar al-Assad – l’anniversario sarà tra pochi giorni – è quella di una profonda precarietà. La volontà di tutti, o quasi tutti, sembra quella di guardare avanti, di non ripetere quanto successo nell’ultimo mezzo secolo – prima una lunghissima dittatura, poi un’estenuante guerra civile. Ma allo stesso tempo si percepisce una grande fatica nell’individuare la strada giusta per andare avanti. La stessa difficoltà che sta facendo il conducente dell’autobus all’aeroporto di Damasco, che, però, non si ferma. I continui black-out elettrici, la mancanza di acqua, la povertà diffusa, sono esempi ancora più concreti, soprattutto se pensiamo che colpiscono una popolazione che arriva da un periodo infinito di sofferenze, fisiche ed emotive. Sofferenza che sta tutta nello scenario di distruzione totale in una buona parte della cintura intorno a Damasco, per esempio a Jobar o Douma, ex-roccaforti dell’opposizione armata al vecchio regime che Assad aveva punito con assedi, bombardamenti a tappeto, attacchi chimici. Vale lo stesso per il centro di Homs.E anche quando la ricostruzione è cominciata – i progetti con fondi che arrivano per esempio da Turchia e Qatar non mancano – procede tutto a rilento. Nelle scuole, quando va bene, si fa il doppio turno. Uno al mattino, un altro al pomeriggio. I siriani ci invitano spesso a lasciare la nostra prospettiva occidentale: riusciranno i nuovi governanti a garantire la convivenza tra i vari gruppi etnico-religiosi? Il nuovo leader, Al Sharaa, eviterà l’avanzata del radicalismo? La nuova Siria sarà democratica?Per loro le domande e le aspirazioni sono altre, più semplici. L’asticella, dal nostro punto di vista, si abbassa.
I siriani vogliono prima di tutto vivere e mangiare. E poi c’è la necessità di fare ordine, di digerire senza dimenticare, rispetto a tutto quello che è successo prima. Voltare pagina non può voler dire dimenticare.
Ce lo ricordano i familiari dei tanti siriani scomparsi sotto Assad, centinaia di migliaia.“Per affrontare il futuro – ci spiega Leena, che da anni cerca suo fratello – abbiamo bisogno di giustizia”.
Davanti al Mar Mediterraneo di Tartous – nella zona alauita ex-roccaforte degli Assad – Kemal, dentista e interprete, qui è meglio fare due lavori, ci spiega che “la Siria è come una donna in gravidanza che deve ancora partorire, non sappiamo quello che sarà”. Forse Kemal ha ragione.


